Busto Arsizio, il “pacione” di Gipo

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La simpatia di Gipo Calloni

I puristi della “lingua” bustocca, ai quali ci siamo rivolti per avere delucidazioni, assicurano che la parola “pacione” non esiste tra i vocaboli dell’isoglossa di Busto Arsizio. Non dubitiamo. Anche se Gipo Calloni, bandiera della Pro Patria spentosi oggi, 24 febbraio, all’età di 85 anni, personaggio che soltanto per la sua innata simpatia avrebbe meritato la benemerenza civica, usava per raccontare uno dei mille aneddoti di cui era depositario, anzi, che spesso l’hanno visto protagonista. Storie e storielle per segnare un’epoca, quando Busto primeggiava persino nel calcio e che, oggi, a decenni di distanza potrebbero aiutare ad alleggerire un momento pesantissimo, tra guerre, pandemie, scazzi internazionali e nazionali, crisi economiche e tutto quel che ne consegue e che, al contrario, non si vorrebbe mai sentire. Per questo usciamo dal politicamente corretto e, invece di soffermarci sulla Meloni e, peggio, sui Ferragnez, parliamo del grande Gipo.

Il pacione era, né più né meno, che il calcistico biscotto, cioè l’accordo tra due squadre per definire in anticipo il risultato. Correvano gli anni Sessanta. Fu così che la squadra biancoblù ospite di avversari che non avevano bisogno di punti/salvezza, come invece la Pro, propose di trattare, meglio, di “acquistare” la vittoria, che allora valeva due punti in classifica. L’intesa fu raggiunta con un dirigente della compagine avversaria che, di lì a qualche ora, avrebbe dovuto incontrare sul campo Calloni e compagni.

Lasciamo a lui la parola, premettendo che il timbro del dialetto con cui si esprimeva Gipo offriva al racconto comicità ulteriore, da consumato affabulatore. Ascoltiamo: “Presi i soldi del pacione; quello (il dirigente degli avversari, ndr) si avviò verso lo stadio assicurandoci che avrebbe avvertito i suoi giocatori. Ci disse di stare tranquilli e di giocare sereni, che avremmo segnato senza troppa fatica. Infatti, già nei primi minuti ci fanno gol. Ma come, penso, non doveva essere il contrario? Rivolgo lo sguardo verso la tribuna e, quello, mi fa segno con le mani di continuare a stare tranquilli. Palla al centro, via verso la porta avversaria, contropiede: due a zero. Di nuovo lo stesso messaggio in codice dalla tribuna: tranquilli. Figurati, allo scadere del primo tempo, ci fanno il terzo gol. Rivolgo di nuovo, incredulo, lo sguardo alla tribuna, e quello non c’era più. Il pacione l’aveva fatto lui a noi. Tornammo a Busto scornati e, soprattutto, incazzati: più che la sconfitta ci bruciava la turlupinata colossale della quale eravamo rimasti vittime”.

La morale di questa storia? Non c’è. Ma se qualcuno la vuole proprio trovare, al di là di chi è pronto a gridare alla scandalo a tempo scaduto (tutto prescritto, per carità), è che tutto cambia ma nulla cambia davvero. Anzi, a guardare bene, invece di migliorare è andata via via peggiorando. Tanto che il pacione di Gipo è zucchero rispetto a ben altri illeciti, scorrettezze e drammi dei nostri giorni. E ci insegna che l’autoironia e un sorriso, specialmente di fronte agli umani limiti, ci aiutano, se non altro, ad ammorbidire le troppe ansie che ci ammorbano l’esistenza.

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