Matteo Salvini e la legge di Murphy

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Matteo Salvini

di Massimo Lodi

Se va male, non può che andar peggio. Vecchia legge di Murphy. Nuova Legge di Salvini. Perde voti ovunque, vince l’idea di scaricare su Roma le disfatte periferiche. Purtroppo non funziona. Bocciati/ritirati in un amen gli emendamenti sul terzo mandato ai governatori e sull’eliminazione dei ballottaggi nelle grandi città. Niet anche alla proposta di far eleggere alla Camera solo chi ha già svolto almeno un quinquennio da amministratore locale (consigliere civico, regionale, assessore, sindaco).

Una calcolata disfatta. È valso subirla per mettere in difficoltà gli alleati, dimostrare orgoglio di partito, placare il nervosismo (la furia) di Zaia e di ottimati vari, che imputano al segretario uno stucchevole filotto di acquiescenze/sbagli? Sembrerebbe di no. Il fatto è che le notizie pessime per il Capitano s’inseguono una dietro alla precedente. Esempio: mentre veniva bocciato il suo emendamento, si approvava quello del meloniano Lisei, potenziale bomba atomica. Dice: bastano 30mila firme invece di 60mila a chi voglia presentare una lista alle imminenti elezioni europee. Significa favorire la discesa in campo di movimenti concorrenziali al Capitano: ad esempio Sud chiama Nord di Cateno De Luca e Laura Castelli oppure il Partito popolare del Nord guidato dall’ex Guardasigilli verde Roberto Castelli. Eccetera. Nel Settentrione irritatissimo la fronda monta da tempo: dalle riunioni a casa Bossi coi “padri” dell’indipendentismo al lenzuolo recentemente steso sul pratone di Pontida (“Da indipendenza a sudditanza: i militanti ne hanno abbastanza. Congresso subito”).

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Massimo Lodi

C’è di più. Arrivano bastoni tra le ruote del progetto su cui il leader insiste da quand’è diventato ministro delle Infrastrutture: il Ponte sullo Stretto. Il comitato scientifico del ministero ha rilevato sessantotto mancanze strutturali. S’aggiungono osservazioni cui non venir meno nella fase esecutiva, pena il farne nulla. Un rilievo, e che rilievo, sufficiente a infiammare le dispute nei territori padani (ma non solo) dove l’enorme investimento destinato alla maxiopera vien visto come fumo negli occhi, essendovi urgenti, indispensabili, costose toppe da mettere laddove l’Italia del lauràa non riesce a farlo causa deficit di modernizzazione in strade, ferrovie, aeroporti eccetera.

Strategia eccentrica, quella del segretario. Forse vuole differenziarsi da Meloni e Tajani rimarcando la sua vicinanza ai territori. Ma i territori non capiscono. Forse vuol far lo stesso distanziandosi dagli alleati sulla politica internazionale, incontrando Mike Pompeo ex segretario di Stato di Trump e non smentendo un prossimo summit coi sovranisti/filoputiniani d’Europa. Ma i territori se ne fregano. Forse non ha ancora elaborato il passaggio dal 34 per cento del ’19 all’8 scarso di oggi. Ma i territori sì, e lo subiscono. Forse punta a giocar tutto sull’elezione novembrina di Donald, segnalandosi come punto di riferimento italiano, al posto dell’ondivago Giuseppi. Ma da qui a là c’è di mezzo una caterva d’elezioni: farsi battere, e non sia mai strabattere, comporta il rischio d’un ritorno al 2013. Quando Salvini ereditò una Lega al 4 per cento. Ipotesi esagerata? Certo che sì. Ma siamo nell’epoca delle esagerazioni. Se va male, non può (non potrebbe, dai) che andar peggio.

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