AMAZZONIA, nel cuore verde della Terra

IL RACCONTO | In Brasile fra gli indios yanomami

Tramonto sul Rio delle Amazzoni - Foto di Leondenis cf Pixabay

Era il 1989. Poche settimane prima di questo viaggio incredibile in Amazzonia, in Brasile era stato ucciso Chico Mendes, il sindacalista che si batteva per i diritti degli indios e dei lavoratori agricoli, cioè i contadini che si spaccavano la schiena per tirar fuori un po’ di manioca dalla terra. Fu assassinato dai grandi proprietari terrieri, latifondisti, e dai garimpeiros cioè i cercatori d’oro che avevano scatenato una guerra nascosta, nella foresta del Brasile, per poter continuare a sfruttare le risorse minerarie dell’Amazzonia, e cioè l’oro. I ricchi e potenti proprietari terrieri che per decenni hanno attuato una massiccia deforestazione per il legno pregiato e per creare superfici estese dove coltivare, dovevano soffocare le proteste degli abitanti locali. Chico Mendes, e dopo di lui molti indios, fu ucciso perché era scomodo, dava fastidio. Sulla base di queste premesse, iniziò un viaggio nel cuore verde della terra, per incontrare gli indios yanomami per difendere le loro ragioni e per aiutarli in una lotta impari, raccontando quello che accadeva all’interno della foresta, cioè gettando luce su una guerra nascosta.

Indios Yanomami a Maturacà – Foto Palácio do Planalto Wikimedia / Marcos Corrêa

Il viaggio iniziò da Manaus, in Brasile: su un aereo militare delle forze armate brasiliane risalimmo insieme al missionario salesiano Padre Beniamino Morandi, buona parte della foresta, un immenso oceano verde che scorreva senza fine sotto di noi. Arrivammo in un piccolo aeroporto militare ai margini del Rio Negro, nei pressi di un villaggio chiamato Santa Isabel, e da qui risalimmo il grande affluente del Rio delle Amazzoni fino ad un piccolissimo villaggio al confine con il Venezuela: Maturacà. Era un avamposto dei salesiani, dove un anziano missionario collega di Padre Morandi aveva costruito l’impossibile: una missione cristiana in mezzo alla foresta impenetrabile, in mezzo ai “suoi” indios.

Erano anni difficili per questa gente. I proprietari terrieri sfruttavano l’Amazzonia per denaro. Non che le cose siano cambiate oggi rispetto a quel tempo. Avevano già costruito macchine mostruose capaci di disboscare centinaia di chilometri di foresta ogni giorno. Mostri d’acciaio che divoravano ogni cosa. Il legname, tutto molto pregiato, veniva venduto e con esso si facevano mobili e altri oggetti di valore che finivano nelle case più belle ed eleganti oltre i confini del Brasile. Sulle terre disboscate venivano poi avviate coltivazioni perché questi ricchi erano anche latifondisti e sfruttavano così anche l’agricoltura. Operazioni che distruggevano non solo piante uniche e preziosissime per il nostro ecosistema, ma anche un’infinità di specie di animali, cancellandole per sempre dalla biosfera, cioè dalla faccia della Terra, e minacciando quindi l’equilibrio delicatissimo della natura.

La foresta amazzonica – Foto Dezalb Pixabay

E poi ci fu la febbre dell’oro. Beh, l’oro c’entra sempre nei capitoli più bui della storia dell’umanità. Quando c’è da fare soldi, i grandi squali arrivano in superficie. In questo caso si trattava dei grandi gruppi industriali che finanziavano anche migliaia di cercatori d’oro: i garimpeiros. Venivano settacciati i fondali del Rio delle Amazzoni e del Rio Negro per trovare questo metallo prezioso. E di oro ce n’era tanto in Amazzonia. Peccato che per setacciare la sabbia e i fondali e far rinvenire le pagliuzze dorate bisogna utilizzare sostanze chimiche che avvelenano l’acqua e uccidono pesci e vegetazione acquatica.

Maturacà all’epoca era un piccolo villaggio di indios yanomami ai piedi del Pico da Neblina, nel cuore della foresta. In quella regione non c’era nulla: solo foresta vergine, dove nessun uomo bianco era mai entrato. Le città sul Rio Negro erano poco più che villaggi. Maturacà non risultava su nessuna carta geografica. Era un villaggio indios, luogo sperduto, sconosciuto al mondo occidentale, dove i piccoli yanomami vivevano in pace, incontaminati dalla civiltà, nel rispetto di tutte le loro tradizioni. Eravamo ben lontani dai viaggi organizzati “tutto incluso”: insetti letali, corsi d’acqua molto pericolosi, serpenti e felini sempre affamati rendevano la vita complicata. L’ambiente, in questi luoghi, era ed è molto ostile alla vita e gli insediamenti umani indigeni lottano tutti i giorni per sopravvivere. Dormivamo (si fa per dire) sulle amache perché era pericolosissimo sdraiarsi a terra, a causa della presenza di animali striscianti di varia natura e di ogni tipo di pericolosità. Gli antichi riti tribali erano sconvolgenti per chi arrivava da quella che – con un po’ di ironia – potremmo definire civiltà. Il culto dei morti a cui mi fecero assistere era, per gli yanomami, fondamentale: essi credono che il morto debba continuare a vivere attraverso i suoi amici, i suoi familiari e i suoi successori. Quando qualcuno muore, quindi, viene cremato e le ceneri sono impastate con banana e manioca. Questo impasto viene mangiato da chi partecipa alla cerimonia funebre e così il morto viene “assunto” dai vivi, cioè continua a vivere nelle persone che lo hanno amato e stimato. Seguire e documentare un rito simile fu un’esperienza sconvolgente. Eppure, nonostante tutto questo, l’Amazzonia ha dipinto nei cuori ricordi incredibilmente belli. Forse perché questo polmone verde del pianeta è fondamentale per la vita sulla Terra. E per ogni respiro che facciamo oggi, dovremmo ringraziare quell’ecosistema che ci sostiene. Nonostante tutto, nonostante l’uomo.

Bambini Yanomami – Foto Wikimedia