L’omicidio di Morazzone, quando le garanzie di legge falliscono

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Per la provincia di Varese è un inizio d’anno caratterizzato dall’omicidio di Morazzone, ancora più efferato e doloroso per la giovane età della vittima: sette anni. Il papà che infierisce con un coltello sul bambino, lo uccide, lo chiude in un armadio e va alla ricerca della moglie, per togliere anche a lei la vita. L’uomo è recidivo: sulle sue spalle il tentato omicidio di un collega di lavoro, preso a coltellate nel mese di novembre. Una persona pericolosa, dunque? La risposta l’abbiamo purtroppo avuta questa domenica, la prima di gennaio, la prima di un anno che si apre, nel paese di Morazzone e nel nostro territorio, in maniera tragica.

 La domanda che segue è altrettanto scontata: si poteva evitare? Davide Paitoni era agli arresti domiciliari, in qualche modo libero di progettare e attuare il suo terribile proposito. Tanto terrificante che nessuno avrebbe potuto immaginare che potesse essere realizzato. Responsabilità di leggi lasche, di un sistema giudiziario che permette anche a chi ha cercato una prima volta di uccidere di rimanere incustodito, ristretto in casa ma senza una vigilanza costante, che gli impedisca di compiere altri reati.

Il tema rimane irrisolto, e non da oggi. Chiama in causa legislatori, giuristi, magistrati. E garanzie non sempre adeguate e sostenibili. Non si tratta di diventare forcaioli a comando, in occasioni di simili episodi. Nel nostro Paese il problema esiste da tempo, a volte se ne discute, si innesca la polemica, si litiga, poi si passa oltre. La certezza della pena è un altro argomento spesso in primo piano, ma per il momento, nonostante tutte le riforme annunciate o già avviate, ancora da definire.

Intanto le cronache ci mettono davanti la realtà. I delitti e le violenze in famiglia, i femminicidi, gli abusi, sono all’ordine del giorno. Se ne parla in continuazione, tranne che, con efficacia, nei luoghi deputati a porvi rimedio. D’accordo, non è sufficiente inasprire le norme per impedire che un padre accoltelli il figlio non ancora adolescente e provi ad assassinare la compagna. Ma qualcosa di più e meglio bisognerà pur fare. Potranno dirlo psichiatri, criminologi, sociologi, insomma, gli esperti, che cosa passi nella mente di una persona che colpisce a morte una moglie, un figlio, un proprio caro.

Nella primavera del 2004, a Busto Arsizio, Roberto Guaia, assassinò due dei suoi tre figli. Avevano 14 e 17 anni. Disse che lo aveva fatto per vendicarsi della moglie, che lo aveva lasciato. Forse lo stesso schema che spiega quanto accaduto a Morazzone. Forse un uguale meccanismo mentale, che però, non sempre, possiamo individuare nella follia. Perché, in fondo, sarebbe troppo facile e comodo spiegare tutto con la mancanza di lucidità, di autocontrollo.

La soluzione di un fenomeno prossimo all’emergenza sociale – pensiamo ai femminicidi –  è comunque complessa, né può essere archiviata fino alla prossima volta, come quasi sempre facciamo quando ci si presentano situazioni delittuose, o catastrofi o incidenti. Occorrerà una volta per tutte che ci si faccia carico della questione, singolarmente, coinvolgendo e coinvolgendoci, responsabilizzando finalmente coloro i quali, esaurite le frasi di circostanza, gli atteggiamenti contriti, le solidarietà finte, finiscono sempre per guardare dall’altra parte.

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