Il “Palagiásciu” di Busto Arsizio rispecchia il Belpaese

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Il discorso del Tarlisu, la maschera che rappresenta Busto Arsizio, alla simbolica consegna delle chiavi della città da parte del sindaco Emanuele Antonelli in occasione del Carnevale, acquisisce valore politico per i temi trattati. L’appello alla concordia, scontato fin che si vuole, retoricissimo nella forma, da sempre inascoltato dalla politica, conclude l’elenco delle incompiute di una città che, al contrario, dovrebbe essere la quintessenza, per tradizione, storia e identità, della concretezza. Invece, di anno in anno, il Tarlisu scherza attorno a una lista di opere da realizzare che rimane sempre quella. A testimonianza di una incapacità amministrativa che trova mille ragioni, ma che è anche la fotografia di un Paese, l’Italia, dove le intenzioni primeggiano spesso, troppo spesso, sulle azioni.

Persino a Busto Arsizio dove, nemmeno il dialetto, pardon, la singolare e ostica lingua dell’isoglossa bustocca, riesce a nascondere, tramutandolo in finta celia carnascialesca, il disagio per ciò che si vorrebbe fare ma non si è fatto. Il Palagiásciu (palaghiaccio) citato dalla maschera cittadina è la sintesi di una serie di interventi inattuati che si rincorrono da qualche decennio, oramai, senza che nessuna amministrazione vi abbia messo mano con successo. Vi hanno provato tutte e, tutti i sindaci che si sono succeduti da almeno cinque lustri a questa parte, hanno incluso ristrutturazioni di vecchi edifici, progetti di nuove strutture, recuperi funzionali di complessi architettonicamente pregevoli nei loro programmi. Con risultati pari allo zero, o quasi.

Domandarsi perché è persino pleonastico di fronte a politici abili nelle chiacchiere, e forse nemmeno in quelle. A maggior ragione quando ci sono i fondi a disposizione, come ad esempio per l’ex palaghiaccio di Busto che ora dovrebbe essere trasformato nel palaginnastica (il condizionale non è a caso). Il tutto rimanda a un sistema amministrativo che a volte s’infrange nella burocrazia, in procedure farraginose, contorte, dispersive. Ma altre volte va a parare nell’inconcludenza della classe dirigente, cifra, l’inconcludenza, che fa rima con la cialtronaggine diffusa nel Belpaese in settori che dovrebbero invece brillare per serietà, competenza e trasparenza.

Certo, ora c’è il Pnrr, il piano nazionale di ripresa e resilienza, che distribuisce denaro a carriolate per le amministrazioni che sapranno approfittare della grande opportunità. Vale per Busto e per l’intera nazione, ci pare chiaro. Pnrr considerato la panacea di tutte le improduttività pubbliche, nonostante i paletti che pone e i tempi certi da rispettare. Condizioni precise a cui attenersi per non perdere i finanziamenti europei. Noi italiani non siamo proprio abituati a rispettare le regole, e questo è un problema. Cosicché finisca per aver ragione il Tarlisu quando, sottintendendo che il re è nudo, traduce l’acronimo di Pnrr con il dialetto: Par Non Riscià a Ruina, cioè, per non rischiare la rovina. Anche se di rovine amministrative ne abbiamo viste a bizzeffe un po’ dappertutto lungo lo Stivale. Con migliaia di opere cominciate e mai finite o, peggio, finite, rimaste inutilizzate e avviate al degrado definitivo. Cose dette e ridette con esiti noti. Fino alla disaffezione e alla sfiducia generalizzata per la politica. Constatazione che, alla luce dell’assenteismo alle elezioni regionali, non è affatto uno scherzo di carnevale.

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