Pd verso il congresso. Molinari: «Il partito deve riaprirsi alla gente»

L’assessore ai Servizi sociali Roberto Molinari

VARESE – «Non serve un nuovo partito, semmai un Partito democratico rinnovato e moderno. Un partito che, anziché ragionare per stereotipi quali giovani, donne, immigrazione, libertà sessuale, riconosca le competenze delle persone e torni a far pesare i diritti sociali rispetto a quelli individuali».

Roberto Molinari, assessore ai Servizi sociali, è considerato uno degli “architetti” del “caso Varese” e della doppia vittoria di Davide Galimberti e del centrosinistra (2016 contro Paolo Orrigoni e 2021 con lo sfidante Matteo Bianchi). E oggi è tra chi difende la sua forza politica dalle spinte distruttive (“L’esperienza del Pd è finita, bisogna fondare un nuovo partito”) e al contempo da coloro che sognano un ritorno al passato remoto.

Roberto Molinari, il risultato del 25 settembre è inequivocabile: il Pd che si è presentato al voto non ha funzionato. Tanto che c’è chi parla della “Cosa tre”: definizione vecchia, aggiornata solo numericamente, per annunciare l’esigenza di un partito nuovo. È questa la via?
«Nell’aria c’è anche questa ipotesi di catarsi distruttiva, non lo posso negare. Ma se dovessi guardare e mettere insieme tutti coloro che hanno in questo momento una soluzione per il Pd di domani passiamo di colpo dal 18 al 40%».

Segno che le cose che non funzionano sono parecchie. Perché azzerare e ripartire sarebbe, secondo lei, la soluzione sbagliata?
«Fare del Pd un partito moderno non è semplice. Ma sarebbe ancor più complicato far funzionare quella che io chiamo “l’insalata russa”, ovvero un soggetto sì nuovo, ma con dentro un po’ di tutto. Non c’è bisogno di un partito che nasce da zero, ma di un Partito democratico che sappia rappresentare i bisogni del Paese».

Sta forse dicendo che il partito ha abdicato al proprio dna politico?
«In quest’epoca in cui l’elettorato è mobile i flussi elettorali parlano chiaro: l’elettore tipo del Pd è laureato e ha una stabilità economica di buon livello».

Un tempo si sarebbe detto che siete diventati il partito delle borghesia. È così?
«O dei ceti “illuminati”. Il problema è però che abbiamo conquistato l’elettorato d’opinione: è concentrato perlopiù nelle città, ma non rappresenta la realtà di un Paese molto più complesso qual è l’Italia. Al contempo ci siamo allontanati dai ceti fragili e da chi non abita nei grandi centri urbani».

Il Pd è diventato un partito che parla di fragilità, ma non riesce più parlare alle persone fragili. Sta dicendo questo?
«Sto dicendo che se c’è un paradosso è proprio questo».

Un paradosso che ha radici lontane. Come uscirne?
«Direi di sì. Dal 2007 non abbiamo più vinto un’elezione e abbiamo perso 7 milioni di voti. Forse anche di più. Due dati che meritano una profonda e seria riflessione».

Bene, da dove si parte?
«Non possiamo prescindere dalla realtà. E aggiungo che non ci resta molto tempo. Mi spiego meglio: percepisco che sta arrivando un’onda di piena che rischia di travolgere l’intero sistema. Certamente i partiti, ma anche le istituzioni locali. Fare l’amministratore consente di avere il polso della situazione. C’è sempre più gente che vive ormai sull’orlo del baratro e teme di precipitare, di retrocedere e tornare a vivere in uno stato di povertà che credeva ormai superato per sempre. A questa gente il Pd deve tornare a dare risposte immediate e di prospettiva».

Insistiamo: più facile a dirsi che a farsi, non crede?
«A Varese, e dico Varese perché è la realtà che meglio conosco pur non essendo l’unica, governa per il secondo mandato di fila un Pd sganciato dalle logiche romane che ha saputo leggere la città in prima battuta. Ha poi dimostrato di saperla amministrare bene guadagnando la riconferma. Se guardiamo il partito, o meglio le correnti interne, possiamo dire che rappresentano la complessità della realtà oppure rispondono a logiche prettamente partitiche e distanti dal Paese? Credo, purtroppo, la seconda risposta».

Incapace di leggere la realtà e avvitato su dinamiche interne: davvero non sarebbe meglio azzerare tutto?
«Assolutamente no. Il Pd non è la continuazione del Pc e nemmeno della Dc. E questo deve essere chiaro. Storie da rispettare, ma di un’altra epoca. Come deve essere chiaro che devono tornare ad aver peso i diritti sociali rispetto a quelli individuali. Perciò occorre ricostruire un’identità, una linea politica e dobbiamo radicarci sul territorio. Tutto questo è anche questione di leadership e classe dirigente, poiché non si può andare a elezioni, come il 25 settembre, senza sapere chi sarà il candidato premier».

Il congresso – ormai il percorso è avviato – come soluzione di tutti mali?
«Il congresso, anche se non è ancora chiaro con quali regole, come processo di rinnovamento. Sono e resto convinto che il Pd non ha esaurito la sua forza originaria di partito nuovo e moderno».