Il rompicapo di Salvini. E la base leghista scalpita

Se le notizie su quanto si sono detti ieri sera (mercoledì 2 febbraio) via zoom gli amministratori leghisti del Varesotto e il capitano Matteo Salvini sono vere (e non abbiamo prove contrarie che non lo siano), quel che emerge è una Lega divisa. Non spaccata. Forse combattuta, tra ciò che suggerisce il cuore e quanto consiglia la testa. E per questo confusa. Smarrita.

Il torello, messo in campo dai partiti romani, che la vulgata leghista battezza come “del sistema”, e nel quale Salvini c’è finito in mezzo per l’intera durata della partita presidenziale, ha messo a dura prova il phisique du role del capitano: instancabile nel passare da una piazza all’altra per sei mesi di fila di campagna elettorale, ma provato dalla “sei giorni di tiki taka romana“, che gli ha svuotato i polmoni e annebbiato le idee.

Normale dopo una una partita intensa e, questo va riconosciuto, giocata in maniera generosa da Salvini. Ma anche pericolosa per questa Lega, che sente sempre più il fiato sul collo dei Fratelli, ma continua a mostrare i muscoli del primo partito del centrodestra, una casa politica diventata di colpo angusta. Almeno per la base varesina, che considera “già fuori” dalla coalizione i forzisti locali e inizia a soffrire le intemperanze del partito della Meloni. Spinte che si traducono in un interrogativo semplice e diretto: “Cosa facciamo?”.

Sindaci, amministratori e segretari delle sezioni cittadine della provincia di Varese, seppur con timidezza, ieri sera, hanno girato il quesito al loro capitano. Forse con la recondita speranza in fondo al cuore di sentirsi dire: “Liberi tutti. Meglio soli, che con questi alleati (definiti da Salvini) un po’ incerti”. Ma in tal senso non sono arrivate indicazione precise. E, se vogliamo, nemmeno input contrari. Surplace. O in bilico, dice qualcuno. Dipende dai punti di vista.

In fatto di comunicazione, del resto, Matteo Salvini non ha nulla da imparare. Anche se la sua “bestia” non ringhia più come qualche tempo fa, il capitano resta un animale che fiuta l’aria prima di molti altri. Sa che la base rumoreggia, avverte le spinte dal basso a tornare (ammesso che lo si possa fare), se non alle origini, almeno a battaglie politiche “più leghiste”. E così, a sorpresa tira fuori la bandiera dell’autonomia da piantare direttamente sul tavolo di Draghi.

Ma sa anche, che Giorgia Meloni, più degli avversari del centrosinistra, è pronta a crescere sulle disgrazie politiche leghiste. E allora raffredda subito la piazza virtuale e mette tutti in guardia: “Stiamo al governo, ma non per chiedere: da oggi pretendiamo”; “restiamo nel centrodestra, ma lo dobbiamo reinventare”; “siamo soli e abbiamo tutti contro, perché siamo scomodi”; ”Serve una Lega forte”. Insomma, indietro non si torna. E non tornerà nemmeno la vecchia Lega di un tempo. Questo i militanti l’hanno capito. Quel che resta da spiegare è come sarà la nuova Lega.