La colpa di essere donne

Rossella Dimaggio

Siamo ancora a domandarci di chi è la colpa se una giovane donna è stata stuprata da un branco di ragazzi, ancora pronti a condannare, più o meno velatamente, gli atteggiamenti e i comportamenti delle donne innescando processi di vittimizzazione secondaria che annientano la vittima.

Prendiamo atto che se ci vestiamo succintamente, usciamo la sera o beviamo, possiamo essere violentate da estranei perché li abbiamo provocati; viceversa, i nostri compagni, fidanzati, mariti ci possono picchiare o ammazzare perché ci amano troppo. Tutto ciò ogni giorno, in qualsiasi latitudine o contesto sociale. La violenza di genere è molto democratica: non fa differenze culturali, economiche, di ceto, etniche, generazionali, siamo rischio in quanto donne.

Dopo anni di rivendicazioni, di norme in difesa delle donne (dalla Convenzione di Istanbul al Codice rosso) l’analisi dei fatti è ancora ferma alla favola di Cappuccetto rosso; io non farò l’errore tipicamente maschilista di definire quel giornalista il “marito di…” a me interessa il suo ruolo di cronista che si fa portavoce di un sentire comune e lo fa diventare pensiero collettivo: “Te la sei andata a cercare, è colpa tua”.

Se il pensiero collettivo di gran parte del Paese è ancora questo è evidente la distanza tra la legislazione e la realtà. Cito per tutte la Convenzione di Istanbul che impone agli Stati aderenti politiche di prevenzione e di contrasto ad ogni discriminazione e violenza di genere. Alle vittime sono dovute ascolto, protezione, sostegno e facilitazioni di accesso alla giustiziaed è altrettanto evidente che la questione ha radici ataviche culturali ed educative.

La cultura fatica ad affrancarsi da un retaggio antico di patriarcato, che spesso scade nel paternalismo, perpetuando modelli maschili e femminili rigidi, anacronistici; i mezzi di informazione (internet compresa) speculano sulle donne proponendole solo come corpi attrattivi siano essi giovani, vecchi o rifatti; il mondo del lavoro rinuncia ai nostri talenti, ci mette nella condizione di rinunciare ad avere dei figli e si rifiuta di declinare al femminile le nostre professioni; gli spazi i luoghi e i tempi sono ancora regolati su modello maschile del secolo scorso.

L’educazione all’affettività e quindi al rispetto di sé stessi e dell’altro, della sua unicità, fragilità e preziosa diversità è sottovalutata in favore di modalità relazionali stereotipate impregnate di senso del possesso e che non preparano a gestire la frustrazione e a reggere il diniego.

Se il modello culturale è questo ebbene, sì, dovremmo sentirci in colpa quando diciamo no, quando decidiamo da sole quello che è meglio per noi, quando lottiamo per realizzare le nostre ambizioni, quando vogliamo affrancarci economicamente, quando ci piace il nostro corpo, quando denunciamo un marito violento, o accusiamo il vigliacco che ci ha stuprate, quando pretendiamo il rispetto che si deve alla persona in quanto persona e non in quanto donna o uomo. 

Dovremmo sentirci in colpa di essere libere.

Mi appello a tutte le donne: single, sposate, fidanzate, mamme, nonne, zie, vecchie, giovani, grasse, magre, istruite, ignoranti… è giunta l’ora di una rivoluzione gentile e determinata che solo noi possiamo mettere in atto.

Non c’è più tempo.

Rossella Dimaggio
Assessora ai servizi educativi e pari opportunità

Comune di Varese

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