VISTO&RIVISTO C’è sempre di mezzo una donna

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di Andrea Minchella

VISTO

Zamora, di Neri Marcorè (Italia 2023, 100 min.).

Sorprendente. Sono andato al cinema un po’ prevenuto, devo ammetterlo. Ho sempre paura di questi slanci artistici di attori che vogliono mettersi dietro la macchina da presa. Neri Marcorè, poi, è un artista troppo completo, come Paola Cortellesi, e il pericolo di cadere in un progetto molto carico che può sfociare nel grottesco è sempre molto alto. Ma non è questo il caso di “Zamora”, tratto dal primo romanzo del giornalista Roberto Perrone che ha raccontato tanto di calcio, di sport e, fondamentalmente, di Italia.

Neri Marcorè scrive, con altri sceneggiatori, un film gentile e discreto. L’attore e comico marchigiano costruisce un racconto dolce e poetico, senza mai sbavare o eccedere. Il film è equilibrato e, senza pretese, ci racconta una storia mitologica in cui l’ancestrale archetipo calcio/vita è alla base dell’intera narrazione. Marcorè, dopo aver scritto un film pacato e, quasi, sussurrato, si occupa della scelta di attori bravi e poco conosciuti, in modo da amplificare di più la potenza della storia. A partire dal protagonista, Alberto Paradossi, gli attori di “Zamora” compongono una squadra credibile e piacevole, che sa immergersi perfettamente nell’Italia degli anni sessanta sapientemente ricostruita.

Quell’Italia, fatta di grandi aziende, di sogni e di calcio (tanto calcio) si inserisce con pacatezza nelle vicende del ragioniere Walter Vismara che, appena arrivato a Milano dalla provincia, si rende conto che le sue origini, forse, non hanno saputo dargli tutti gli elementi necessari per crescere. Walter si innamora della sua nuova vita ed è disposto a tutto, o quasi, per farsi apprezzare dai nuovi colleghi di lavoro e da Ada, bella e giovane impiegata che si accorge subito dell’ingenuità romantica di Walter. E siccome nell’azienda in cui Walter è appena arrivato il calcio, oltre al lavoro, è una questione di primaria importanza, a causa dell’ossessione calcistica del proprietario (il cavalier Tosetto, sfegatato Interista) che organizza partite di calcio con i suoi dipendenti, Walter, totalmente avulso dal pallone, si inventa portiere anche se non ha mai toccato palla.

La sua perseveranza nel voler ambientarsi nella nuova realtà lo porterà a conoscere Zamora, egregiamente interpretato da Neri Marcorè, che è stato un grande portiere del passato ma che ora tende a sopravvivere tra debiti, vino e un figlio che non vuole più avere rapporti con lui. Questo legame tra Walter e Zamora diventa la spina dorsale di un racconto in continua evoluzione che ci restituisce un’epoca in cui la gentilezza e la sincerità erano ancora un codice comportamentale nobile e diffuso. I due protagonisti diventano gli opposti che sanno riconoscersi ed avvicinarsi. La famiglia di Walter diventa un riparo momentaneo per le sofferenze di Zamora. La sincerità di Zamora diventa una medicina temporanea per le fragilità di Walter.

La storia, dunque, ci parla di Milano ma anche dell’Italia che non c’è più. Ci parla di calcio ma anche della vita di un uomo che si riscopre capace di affrontare le proprie paure. Il film, poi, ci restituisce, senza retorica, la figura della donna emancipata e nettamente superiore agli uomini incapaci di capire e di medicare le ferite degli altri. La mamma e la sorella di Walter, ma anche la stessa Ada, sono l’espressione plastica della donna capace di decidere, cosciente del proprio ruolo nella famiglia e nella società, e nobile e prezioso elemento nella vita di un uomo. Neri Marcorè riesce nella difficile impresa di raccontare una storia iconografica senza cadere nel vortice degli stereotipi e dei luoghi comuni. Questo è dovuto certamente al buon romanzo di partenza ma anche alla sceneggiatura equilibrata e inedita che ne è stata tratta.

Walter, alla fine, è l’immedesimazione dello stesso Marcorè che inserisce, sapientemente, elementi autobiografici senza mai, però, sbilanciare la storia verso un racconto autoreferenziale. L’immedesimazione anche da parte dello spettatore è una possibilità grazie all’universalità della vicenda che il regista riesce a scolpire in ogni sequenza, dentro ogni inquadratura. La cornice, poi, dei costumi, della scenografia e delle musiche impacchettano perfettamente una storia potente e didascalica. Ottimo lavoro aspettando il suo prossimo film.

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RIVISTO

OVOSODO, di Paolo Virzì (Italia 1997, 103 min.).

Virzì elabora e ci regala un ritratto potente e sincero del sentirsi perennemente fuori luogo. Lo fa con un racconto terapeutico che sa restituire una vicenda iconografica ai tanti che si sentono in gola un uovo che non scende né sale: resta immobile facendoci avvertire una sorta di nausea dolce della vita. Un capolavoro narrativo che fa toccare al regista livornese, forse, il suo punto più alto in termini di poesia e dolcezza.

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