VISTO&RIVISTO Viaggio biblico nelle paure e negli incubi moderni

di Andrea Minchella

VISTO

LIGHT OF MY LIFE, di Casey Affleck (Stati Uniti 2019, 119 min.).

Casey Affleck questa volta fa sul serio. Dopo lo sperimentale e dissacrante “mockumentary” sul poliedrico Joaquin Phoenix “IO SONO QUI”, il fratello minore di Ben scrive e dirige un potente e silenzioso film sull’identità, sul rischio enorme di perderla, sulla follia umana e sul viaggio come metafora di crescita.

In questo straordinario racconto troviamo una varietà originale ed eterogenea di tematiche che si incastrano tra loro facendo da sfondo ad una toccante quanto intima relazione che si instaura tra Rag, una dolce e già adulta bambina di 11 anni, e suo padre, un sorprendente e magnetico Casey Affleck. La vicenda si svolge in un mondo, freddo e deserto, che vive la pandemia più violenta e ancestrale che possa scatenarsi sull’umanità: un virus misterioso falcia prevalentemente la popolazione di sesso femminile, con la conseguente paura incontrollata che la civiltà possa volgere al termine. In questo contesto apocalittico si aggirano “predatori” in cerca di eventuali donne sopravvissute per rapirle e segregarle  in luoghi nascosti e segreti ove tenerle come possibili unici mezzi per la continuazione della specie.

Al di la della storia prettamente fantascientifica, Affleck, che scrive prima di dirigere questa storia tanto evocativa quanto iconografica, ci racconta di quanto sia pericoloso e gravemente irrimediabile la perdita di identità di genere, spesso messa in discussione nella società contemporanea. Affleck, poi, ci regala dei momenti estremamente poetici, quando ci narra del padre che cerca di spiegare, alla figlia attenta e disillusa, la creazione di un bambino tra un uomo ed una donna, o quando cerca di spiegarle, attraverso l’esempio si sua madre, il concetto di morte e di mancanza. Una sceneggiatura solida e ben strutturata dà un impulso vitale alle scene egregiamente e dettagliatamente costruite dal bravo Affleck.

Molto intenso, poi, il riferimento alla cultura ebraica, alla continua diaspora di un popolo, all’estraneità a qualsiasi luogo e alla sensazione di sentirsi perennemente bersaglio di qualcun’ altro. Il padre e la piccola Rag continuano a fuggire per scappare da un nemico che vorrebbe cancellare le loro esistenze in cambio di una possibilità molto meccanica di far continuare la specie umana sulla terra. L’esigenza di vita che per esistere deve cancellare la vita. Questo corto circuito ha da sempre connotato la contraddizione costante che emerge dalla maggior parte delle azioni umane.

Affleck, attento e ottimista autore contemporaneo, ci avverte che l’amore, o meglio l’avventura d’amore, può gettare la basi per un cambiamento sostanziale dei valori e delle ricchezze dell’essere umano che verrà. E questo film, dopo tutto, è una bella e profonda avventura d’amore che vale la pena vivere.

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RIVISTO

IL FIGLIO DI SAUL, di Laszlo Nemes (Saul Fia, Ungheria 2015, 107 min.).

Alla sua opera prima, il giovane regista ungherese confeziona una delle pellicole più agghiaccianti e toccanti sul difficile tema dell’Olocausto. Il racconto è incentrato sulla figura di Saul, un membro ungherese del Sonderkommando, il gruppo di prigionieri ebrei isolati dal campo e costretti ad assistere i nazisti nella loro opera di sterminio.

Un giorno, mentre pulisce le camere a gas, assiste all’uccisione da parte dei nazisti di un ragazzo sopravvissuto alla gassificazione. Pur di dargli una sepoltura ed evitargli una cremazione “di massa” dice che quel ragazzo è suo figlio. Comincia così un “viaggio” terribile e nauseante per raggiungere un luogo degno e sicuro dove seppellirlo. Il racconto è appesantito dalla scelta del regista di far seguire il protagonista, in maniera quasi continua e asfissiante, da una sola cinepresa che, quasi in presa diretta, testimonia tutte le azioni di Saul, prendendolo sempre da dietro.

Un capolavoro giustamente premiato in tutto il mondo, che va rivisto sia  per la tematica, delicata e necessaria, sia per la grammatica, innovativa e coerente, utilizzata dal bravo e potente autore ungherese.

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