A cavallo fra due mondi

La Turchia e la politica di Erdogan

di Alessandro Belviso

La Turchia da sempre per la sua posizione geografica ha un ruolo strategico nello scacchiere internazionale, punto di passaggio tra l’Europa e l’Asia. La nazione presenta una delle culture più variegate e ricche dell’area mediorientale, basata sull’incontro tra diversi gruppi etnici, ognuno con i propri costumi ed usi. E oggi la strategia geopolitica ricalca l’impronta storica del paese come “crocevia” tra i 2 continenti: Erdogan, il presidente della Repubblica in carica dal 2014, cerca attivamente di rendere la Turchia lo stato più importante della regione. La sua politica conta sull’appoggio dell’alleanza euro-atlantica, essendone membro dal 1953, ma non disdegna nemmeno accordi con Russia (soprattutto) e Cina, antagonisti della stessa.

Il paese ha svoltato dopo la crisi politica del 2016 culminata con un tentato colpo di stato (fallito) ai danni dell’attuale presidente. Erdogan è riuscito nel ridare importanza internazionale alla Turchia, ma con molte ombre: l’accordo con l’UE del 2016 per regolamentare i flussi di migranti, anche se criticato fortemente per il trattamento delle autorità di Ankara verso i profughi, ed il coinvolgimento dell’esercito nazionale nella guerra in Siria, compiuto però per contrastare i combattenti curdi. Inoltre, l’intesa raggiunta questa estate tra Ucraina e Russia per lo sblocco dei porti per il passaggio del grano di Kiev dimostra l’abilità della diplomazia del governo turco nel fare da intermediario nelle trattative.

L’Occidente vede Ankara come un alleato strategico per i molti interessi nell’area, ma altrettanto scomodo. In primis per la gestione interna del paese. Da anni molti cittadini si lamentano per le violazioni della democrazia operate da Erdogan. Egli ha accentrato con diverse riforme costituzionali il potere nelle sue mani, ha imbavagliato la stampa e le condizioni della minoranza curda sono inaccettabili. Inoltre da alcuni anni la politica del paese si sta avvicinando ad Oriente. L’acquisto dei sistemi di difesa missilistica russa S-400 ha irritato Washington, che ha risposto con sanzioni all’industria bellica di Ankara. La diffidenza è reciproca: il governo turco non accetta il sostegno americano ai combattenti curdi in Siria e non ha digerito la mancata solidarietà durante il golpe del 2016. Il presunto autore, l’imam Fetullah Gulen si è rifugiato negli USA e ad oggi gli americani si rifiutano di estradarlo in Turchia.

L’approccio ibrido di Erdogan al momento paga. Per lui far parte della Nato (anche se continua a criticare le scelte dell’Alleanza, come l’opposizione all’adesione di Finlandia e Svezia) gli permette di contrastare l’aggressione di Mosca nel Mar Nero e bilanciare il suo appoggio alle superpotenze, in base alla situazione.