Il ritiro di Modolo: “Ho capito tardi di non essere solo un velocista”

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Con un arrivo in volata in vista, Sacha Modolo è stato per anni uno degli uomini di riferimento a livello italiano e internazionale. D’altronde, 47 vittorie da professionista, molte delle quali di altissimo livello, non si raccolgono per caso. Il 35enne di Vazzola ha annunciato in questi giorni il suo addio al professionismo con un video che raccoglie tutte le sue volate più belle, la prima in maglia Colnago al Tour of Qinghai Lake nel 2011 e l’ultima, dieci anni più tardi, al Giro di Lussemburgo in maglia Alpecin. Come aveva ammesso recentemente, la decisione di appendere la bicicletta al chiodo è arrivata un po’ prima rispetto a quando avrebbe voluto, ma ciò non toglie nulla alla sua grande carriera.

Sacha, quanto è stato difficile fare questo annuncio?
«È stata dura, lo ammetto. Ho sempre avuto una mia visione del ciclismo, non sono mai stato ossessionato da questo sport e proprio per questo pensavo che nel momento in cui avrei appeso la bicicletta al chiodo non ci sarei rimasto poi così male. Beh, devo rivedere il mio pensiero. A quanto pare la bicicletta mi piaceva proprio».

Hai fatto la carriera che ti aspettavi quando eri un giovane neo-professionista?
«Non mi sono mai ritenuto un gran campione e, forse, questo è anche stato uno dei miei difetti, avrei dovuto credere di più nei miei mezzi. Al tempo, per me, essere riuscito a passare professionista era già un bel risultato, quindi tutti quei successi che sono venuti dopo sono stati un apprezzato “di più”. Certo, dopo il 4° posto alla Milano-Sanremo al primo anno da professionista in tanti credevano che per vincere quella gara fosse solo questione di tempo, invece purtroppo non è stato così».

C’è qualcosa su cui recrimini?
«Mi dispiace aver capito tardi che forse ero qualcosa in più di un velocista puro. Nel 2017 con la UAE abbiamo deciso di provare a puntare sulle corse un po’ più dure, facendo un inverno apposito per guadagnare in resistenza, e magari perdere qualcosina in termini di picco di velocità. Il risultato è stato un’ottima campagna del nord, con in particolare il 6° posto al Giro delle Fiandre. Il problema è che dalla stagione seguente sono cominciati i guai fisici…».

Non hai più corso una stagione completa senza intoppi.
«Negli ultimi anni la sfortuna mi ha perseguitato. Ho tirato avanti con tanta grinta, perché come dico sempre “a me non ammazza nessuno”, ma in pochi sanno quanto ho dovuto soffrire. Ho fatto fatica a capire quale fosse il problema allo stomaco e così facendo le due annate in EF sono praticamente sfumate, poi nel 2020 con la maglia della Alpecin ero partito bene, il lockdown ha fermato tutto e al rientro mi sono rotto due costole. Nel 2021, come se non bastasse, ho avuto un serio problema al ginocchio che mi ha tenuto fermo altri 6 mesi. Non sono né Van Aert né Van der Poel, quindi tornare al massimo dopo tutti questi problemi non era per nulla facile. Quest’anno, in effetti, l’ho patito un po’ di più, ma c’è anche da dire che la struttura che mi supportava in Alpecin era ben diversa da quella della Bardiani. Ho visto che in tanti hanno scritto ‘era ora che ti ritirassi’, perché ho vinto poco negli ultimi 4 anni, ma la realtà è che dietro c’era molto di più».

Il momento più bello della tua carriera?
«Ho vinto tanto per fortuna, quindi di ricordi belli ne ho molti. Sicuramente il quadriennio in maglia Lampre e poi UAE è stato il più prolifico. Se devo indicare la vittoria più bella, che non è necessariamente la più importante, dico quella al Giro di Svizzera 2014, quando sono riuscito a battere Peter Sagan, John Degenkolb e Alexander Kristoff, che erano tutti nel miglior periodo della carriera. Mi stavo preparando per il Tour de France, mi avevano inserito tra i papabili per la prima maglia gialla visto che si arrivava in volata ad Harrogate, invece mi sono ammalato subito e sono tornato a casa dopo due tappe. Un peccato, visto che è stata l’unica volta che sono andato al Tour. A proposito di sfortuna, insomma…».

Qualche scelta che faresti diversamente?
«Forse in termini di atteggiamento. Mi sono accontentato un po’ troppo di quello che stavo facendo,  invece avrei dovuto battere il ferro finché era caldo. Non mi è mai interessato battere tutti in ogni occasione, quanto piuttosto far capire di avere le possibilità di poterli battere. So che è un ragionamento un po’ contorto. Ovviamente con la testa che ho adesso qualcosa di diverso lo avrei fatto, ma penso che tutti a 35 anni abbiano una testa diversa rispetto a quando ne hanno 25, fa parte della crescita di una persona. Ecco, avessi incontrato prima mia moglie Valentina, forse, avrei trovato una certa stabilità e maturità un po’ in anticipo».

Sei passato professionista nel 2010, un’altra era ciclistica.
«Sembra scontato e banale dirlo, ma preferivo quel ciclismo. Ma se lo chiedi tra 15 anni ad un ragazzino ti dirà che preferisce quello di oggi. Fa parte del classico discorso generazionale. La vecchia guardia, in qualsiasi ambito, fa sempre più fatica ad accettare il cambiamento. Detto ciò, il ciclismo di oggi è più stressante ed intenso e lo si vede nelle corse che possiamo definire di seconda fascia. Sei sempre sotto la lente di ingrandimento, di tifosi e sponsor, i social sono pronti a giudicarti, la stagione dura di più e non ci sono più gare di avvicinamento o preparazione ai grandi appuntamenti. Devi essere sempre performante. In corsa, invece, il livello si è alzato sensibilmente nel periodo immediatamente precedente alla pandemia, si è cominciato ad andare a mille all’ora in ogni gara».

Quando hai capito che qualcosa stava cambiando?
«In Alpecin ho intuito che il ciclismo stava cambiando direzione. Parliamo di una squadra all’avanguardia, che mi sento di paragonare a squadroni come Jumbo-Visma o Ineos Grenadiers, e i risultati sono lì a dimostrarlo. Programmazione specifica, tabelle, strutture, metodologie, tipologie di allenamenti diverse, tutto studiato nei minimi dettagli. In Italia siamo abituati alle 6 ore di uscita a ritmo blando, con la salita fatta in medio, e l’ossessione del peso. In Alpecin mangiavo di più e gli allenamenti erano di 4 ore, ma molto più intensi. Tornavo a casa esausto. Però mi piaceva. Lì ci ho lasciato un pezzo di cuore, sono rimasto in ottimi rapporti con tutto l’ambiente. Basta pensare che quando ho annunciato il ritiro tra i pochissimi DS che mi hanno scritto c’erano quelli della Alpecin».

Cosa ti mancherà del professionismo?
«Difficile rispondere ora, ho appena smesso e sinceramente al momento, sarà un po’ per la noia, ma mi manca un po’ tutto. Amavo correre, l’adrenalina delle gare era ciò che dava la forza a tutto. Non si può neanche dire che la routine di un ciclista professionista sia pesante, perché mediamente fai un’uscita di 3 ore e poi sei a casa, se piove ti alleni sui rulli. Una bella “samba”, altroché. Gli unici momenti in cui soffrivi erano quei tapponi alpini sotto la pioggia e il gelo, un paio di volte l’anno… ecco quelli non mi mancheranno».

E adesso dove ti vedremo?
«Idee tante, certezze poche. I miei procuratori Massimiliano Mori e Marco Piccioli mi hanno detto di vedermi particolarmente adatto a fare il loro lavoro. Ci sto riflettendo, a me piacerebbe più che altro aiutare i ragazzi della provincia di Treviso o del Veneto ad emergere, facendo valere anche i miei tanti contatti in questo mondo».

Su YouTube hai un canale in cui parli e metti a posto le vespe…
«È nato come uno scherzo ma alla fine mi sono arrivate tante richieste. Però, onestamente, non credo possa diventare il mio lavoro, lo vedo più come un hobby».

Articolo a cura di Tuttobiciweb.it

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