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di Andrea Minchella

VISTO

LE OTTO MONTAGNE, di Felix Van Groeningen, Charlotte Vandermeersch (Italia-Belgio-Francia 2022, 147 min.).

Ruvido e dolce. Piccolo e maestoso. Sussurrato e gridato. Il racconto di Paolo Cognetti diventa un film in cui gli opposti si attraggono. In cui gli opposti danno vita ad un percorso intenso e poetico nella preziosa ed unica amicizia tra due anime. “Le Otto Montagne” è un ritratto potente dell’uomo e delle sue origini, dalle quali non può sfuggire e con le quali, prima o poi, bisogna fare i conti. Bruno e Pietro diventano epica d’arrampicata e di sofferenza di una vicenda intima e sussurrata che pochi hanno la fortuna di vivere.

I due registi prendono, forse troppo presto, un libro complesso e privato e lo trasformano egregiamente in un affresco raffinato che mette in risalto le due anime dei protagonisti, soffermandosi su di una descrizione quasi ossessiva dell’ambiente in cui i due vivono: la montagna. Sì perché otre ad un profondo Luca Marinelli, nei panni del fragile Pietro, e ad uno sconcertante Alessandro Borghi, nei panni del ruvido Bruno, i veri protagonisti della pellicola sono la montagna in cui quasi tutto il racconto si svolge, e la musica che i due autori decidono di “cucire” addosso tutta la vicenda. Le inquadrature del ghiacciaio, delle vette, delle vallati, diventano icone necessarie per meglio spiegarci la difficile relazione che si instaura tra i due protagonisti, e tra loro e la terra su cui vivono. Le note di Daniel Norgen avvolgono ogni fotogramma di questo film trasformando l’amicizia tra Bruno e Pietro in un’esperienza spirituale a cui tutti noi vorremo partecipare. L’amicizia come una forza magnetica priva di parole o azioni eclatanti qui diventa un flusso potente e deciso come l’acqua che dal ghiacciaio raggiunge la vallata. Bruno e Pietro sono legati indissolubilmente da un’esperienza comune, da un ricordo nitido, da un dolore intenso legato alla perdita di un padre, che sia il tuo padre biologico o qualcuno che ti ha fatto da padre.

Alessandro Borghi e Luca Marinelli accettano la scommessa dei due registi e danno vita ad un’opera intimista e poetica che mischia le parole dei protagonisti con il silenzio della montagna e con l’assordante desiderio di emanciparsi dalle proprie origini. Pietro e Bruno sembrano essere figli dello stesso padre, pur non essendo fratelli. I due si ritroveranno da grandi per esaudire l’ultimo desiderio del padre di Pietro che in quella montagna vedeva la possibilità di un vero rapporto con il figlio, con la sua famiglia, con sé stesso. Quel desiderio diventa il lucchetto che fissa per sempre il rapporto tra Bruno e Pietro, rendendoli legati uno all’altro qualsiasi cosa accada.

Dunque Paolo Cognetti, prima, e Van Groeningen e Vandermeersch, poi, danno vita ad una sorta di scalata introspettiva in cui il lettore e lo spettatore si trovano coinvolti in una storia di amicizia e di rapporto con il territorio che abitiamo che tolgono il fiato per la quantità di poesia che si stacca da quelle vicende. Cognetti disegna la trama che il lettore si immagina nella sua mente. I due registi colorano e musicano quella trama. Il risultato è gigantesco ed è, probabilmente, un’occasione persa da qualche regista italiano che avrebbe potuto cimentarsi con la realizzazione di un film come questo. Peccato.

Marinelli si dimostra un abile attore, capace di tratteggiare perfettamente i lati più nascosti del personaggio che gli viene affidato. Borghi fa di più. Impara il dialetto di montagna, e si trasforma nel “citrico” e istintivo abitante di montagna, che, apparentemente, non distingue le sfumature né percepisce la complessità del mondo. Apparentemente.

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RIVISTO

LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMI, di Saverio Costanzo (Italia-Germania-Francia 2010, 118 min.).

Anche qui troviamo un libro unico e potente e la sua trasposizione cinematografica che impreziosisce la scrittura originale. Paolo Giordano cerca di applicare la scienza alle emozioni ed agli stati d’animo che alcuni di noi si ritrovano a vivere.

Saverio Costanzo prende quelle parole e le trasforma in alcune tra le sequenze più belle che il cinema italiano contemporaneo ci ha regalato. Luca Marinelli e Alba Rohrwacher sembrano essere stati da subito i personaggi a cui si è ispirato Paolo Giordano. Un rapporto impossibile, difficile, che diventa linfa vitale per due anime fragili e accomunate dalle stesse sofferenze. Un capolavoro da rivedere.

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