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di Andrea Minchella

VISTO

HONEY BOY, di Alma Har’el (Stati Uniti 2019, 94 min., Sky Cinema).

Shia LaBeouf si mette a nudo. Qualcuno potrebbe pensare che non c’era bisogno di un altro racconto egocentrico e autoreferenziale su di una delle tante “star” del panorama luccicante della giovane Hollywood. In realtà l’operazione che compie il prodigio Shia, al netto dell’intenzione commerciale, è un interessante “auto analisi” che trasforma una delle tante storie di “giovani” attori sfruttati dalle famiglie, in un ritratto iconografico che fissa in maniera poetica e originale le perverse dinamiche famigliari tra gli adulti e i piccoli “mostri” che diventano fonte di successo e ricchezze per l’intera famiglia.

LaBeouf scrive un’intensa sceneggiatura ripercorrendo i difficili anni della sua infanzia e il complesso rapporto con il padre Jeffrey, qui nel film con il nome James, interpretato dallo stesso Shia. La pellicola si snoda tra lo Shia adulto, che cambia il nome in Otis ed è interpretato da Lucas Hedges, e lo Shia bambino, interpretato dal giovane sempre più convincente Noah Jupe. La vicenda, dunque, salta dal presente al passato e di nuovo al presente, mischiando in maniera quasi onirica i due piani cronologici che reggono l’intera narrazione.

Otis bambino ha un padre ingombrante, sognatore e alcolizzato. Otis capisce subito che la sua esistenza sarà dura e piena di ostacoli. La sua sensibilità verrà continuamente messa alla prova da un padre istintivo e consapevole della sua influenza nei confronti di suo figlio. La carriera da attore del piccolo Otis sta prendendo forma e diventa sempre più spesso motivo di scontro tra lui e il padre James che, come in ogni schema famigliare che si rispetti, ributta addosso al piccolo ma già forte Otis tutti i suoi rimpianti e tutte le sue debolezze. Il successo del figlio “prodigio” diventa inevitabilmente uno specchio sincero e crudo degli insuccessi, non solo professionali, del rancoroso e ferito James.

L’adulto Otis, ormai attore completo e di successo, viene ricoverato in una clinica per una riabilitazione “forzata” a causa dei troppi incidenti dovuti all’abuso di alcol. Qui Otis cerca di ripercorrere le fasi più difficili della sua infanzia proprio per poter individuare e “isolare” quei passaggi in cui le emozioni sono diventate cicatrici sul suo corpo, un corpo pieno di ferite mai rimarginate. E qui Shia LaBeouf “pesca” direttamente dalla sua esperienza personale quando, a causa di un vero ricovero in una clinica, decise di scrivere la storia della sua vita con la finalità di esorcizzare il rapporto difficile con suo padre che tanto l’aveva segnato e cambiato. Quella “terapia”, in seguito, diventò la sceneggiatura di “Honey Boy” la cui regia viene affidata, dallo stesso LaBeouf, all’amica Ama Har’el, videomaker, che con LaBeouf condivide diversi interessi e percorsi.

Assistiamo, dunque, ad una “psicoanalisi” in cui il protagonista cerca il più possibile di mettersi a nudo per regalare allo spettatore la natura più cruda che si nasconde dietro ad una vita di successo. La sofferenza e la mancanza di un’infanzia serena e sicura diventano pericolosi germi che possono dare vita ad un’esistenza complicata e piena di insidie. L’irrequieto LaBeouf decide di mettere sul tavolo una storia che racconta in maniera poetica e catartica di come il successo “prematuro” si porti dietro, spesso, un carico di sofferenze, paure e violenze che vengono accentuate con il senso di inferiorità dei genitori nei confronti dei figli attori, cantanti o fenomeni sportivi. È inevitabile l’immedesimazione, anche parziale, con il piccolo Otis: quante volte, anche noi, abbiamo sofferto delle incomprensioni e delle distanze che, non di rado, diventano predominanti nel rapporto con i nostri genitori che proprio perché ci hanno generato hanno un’influenza perpetua sui nostri comportamenti, sulle nostre emozioni e sul nostro “io” più nascosto.

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RIVISTO

LITTLE MISS SUNSHINE, di Jonathan Dayton e Valerie Faris (Stati Uniti 2006, 101 min.).

Un capolavoro che ci commuove e ci diverte. La piccola Olive diventa eroina e trasforma un viaggio in un pulmino Volkswagen in un appassionante esperienza dentro le infinite e spesso indecifrabili sfaccettature dei rapporti familiari e di tutto ciò che ci trasforma da bambino disilluso e sognatore, in adulto cinico e realista.

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