Van De Sfroos, folk all’Apollonio: «Con Varese legame saldo e duraturo»

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VARESE – Le canzoni di “Maader Folk”, nuovo album di Davide Van De Sfroos accompagnato dal singolo apriprista “Gli spaesati” e con il brano “Oh Lord Varda Gioo” insieme a Zucchero Sugar Fornaciari, hanno dovuto attendere a lungo, complice l’avvento del Covid, prima di poter vedere la luce lo scorso settembre. Ora il cantautore comasco è impegnato in tour con Angapiemage Galiano Persico (violino, mandolino, tamburello, cori), Paolo Cazzaniga (chitarra elettrica e acustica, cori), Silvio Centamore (batteria, percussioni), Matteo Luraghi (basso), Thomas Butti (fisarmonica, tromba) e Daniele Caldarini (tastiere, chitarra acustica). La tappa al Teatro di Varese, in programma l’11 marzo alle 21, ha offerto l’occasione per parlare oggi, mercoledì 9, della sua ultima fatica, un ritorno sulle scene musicali a distanza di sette anni dall’ultimo lavoro in studio.

Venerdì sera il tour di “Maader Folk” farà tappa al Teatro Apollonio. Come sarà il concerto che proporrà al pubblico di Varese?
Abbiamo impostato il tour con un gruppo di sette persone sul palco: l’intento è di rappresentare dal vivo l’intero “Maader folk” con gli stessi suoni e direi che ci stiamo riuscendo: la gente è contenta e i concerti stanno andando molto bene. Anche perché è la prima volta che mettiamo sul palco un album completo. C’è da dire che i suoi brani hanno dovuto aspettare un po’ di tempo prima di uscire: hanno sofferto abbastanza e, adesso che possono volare, si portano dietro anche un po’ di sfogo e di voglia di essere interpretati. Poi, naturalmente, nelle due ore di spettacolo che porteremo in scena non mancheranno classici attesi da tutti come “Yanez”, “La curiera”, “Pulènta e Galèna frègia”.

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Qual è il messaggio di “Maader Folk” e come è nato?
Si tratta di un disco molto legato alla sua terra di appartenenza. È nato in un agriturismo: il Brughee, che si trova sopra Tremezzo, frazione di Rogaro, dove ci siamo rinchiusi per un mese. Lì abbiamo montato uno studio mobile e abbiamo lavorato a stretto contatto con il territorio tra cavalli, mucche, il lago e le montagne. Purtroppo è arrivato il Covid e il disco, sebbene fosse già pronto, ha dovuto attendere. Dal momento che arriva dopo sette anni dall’ultimo album in studio contiene diversi brani inediti: alcuni sono molto recenti ma ce ne sono anche altri che sono stati a sedimentare, canzoni come “Oh Lord, vaarda gio” o “Fiaada”. Appartengono a un altro periodo, ma erano tutte frecce pronte per essere scagliate. L’album contiene sicuramente un folk di appartenenza, ma alcune tracce, come le sei curate da Taketo Gohara, presentano arrangiamenti sperimentali come suoni di conchiglie o di fanfare. Quanto ai testi, spaziano dall’intimo al territoriale. È quindi ricco di strati, perché ha atteso tanto, a causa del Covid, prima di poter essere cantato dal vivo.

Quali sono state le sue influenze? E in questo momento quali sono gli artisti che la colpiscono di più?
Ci sono molti magnetismi: ora, con i mezzi che abbiamo a disposizione, è possibile frequentare tantissimi artisti. Tengo sempre aperta una porta alla musica sperimentale nuova, magari elettronica e ambient, anche se in il genere che suono è completamente diverso. Mi piace però anche guardare indietro, tornare ai mondi psichedelici degli anni Settanta o andare a rivisitare il vecchio country. Mi piace spaziare, perché la musica non può essere lasciata a sedimentare in una sorta di conca; altrimenti tu diventi soltanto “quella cosa”, e non va bene.
Ieri mattina, per esempio, ascoltavo musica reggae e oggi mi sono svegliato con la musica punk.
i Bad Religion, e Sex Pistols e Clash, sempre presenti, perché sono cresciuto con loro. Anche Buzzcocks, Siouxsie and The Banshees per il lato più dark, oppure Dead Kennedys e Black Flag. Tra le band più recenti ci sono gli Idles, che ho conosciuto grazie a mio figlio. Poi Killing Loke, Pil, Stiff Little Fingers e l’alternative rock di Pixies, Dinosaur Jr., Hüsker Dü e Minutemen, senza dimenticare gli Screaming Trees del povero Mark Lanegan, un mito e un musicista poliedrico che ho sempre ascoltato tantissimo.
Il reggae è tutto un altro mondo: Bob Marley, i Wailers e Peter Tosh non si toccano. Però per me meritano considerazione anche i vari figli di Marley, come Damien e Steven, e le band Black Uhuru e Steel Pulse. Questo per quanto riguarda gli artisti già affermati, ma anche tra quelli nuovi ce ne sono tanti bravissimi, tra quelli fedeli ai suoni tradizionali e quanti aggiungono dub ed elettronica alla loro musica.

Si è esibito più volte a Varese e ha anche collaborato con l’Università dell’Insubria. Qual è il suo rapporto con il nostro territorio?
Ho un forte legame da tempi non sospetti: mio padre, quando ero bambino e andavo alle elementari, smise di fare il camionista in Nord Europa e cominciò a lavorare a Varese. Tutte le mattine faceva il viaggio e qualche volta andavo con lui, mi portava a mangiare al Passatore. Varese è stato anche un punto di passaggio, diventando poi fisso, per le mie prime esperienze musicali: locali, notti bianche e infine il palco del Teatro di Varese ogni volta che è uscito un mio disco, nonché in quelli limitrofi.
E la Valganna, la Valcuvia e Leggiuno: abbiamo girato in lungo e in largo la provincia, di cui ho potuto approfondire la conoscenza, anche per i documentari di “Terra e acqua”. C’è tutta una magia legata al lago Maggiore che mi ricorda il mio mondo ma ha delle sue diversità, delle sue peculiarità molto affascinanti. Il mio legame con Varese è sempre stato saldo e duraturo.

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