VISTO&RIVISTO Amy, l’ultima ragazza dolce e romantica

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di Andrea Minchella

VISTO

BACK TO BLACK, di Sam Taylor-Johnson (Regno Uniti- Stati Uniti 2024, 122 min.).

Un film a metà. Volutamente leggero, esageratamente didascalico. L’artista concettuale Sam Taylor-Johnson decide di realizzare un racconto su l’ultima vera diva della musica contemporanea. Amy Winehouse è stata un vortice di qualità, di fragilità, di paure e di bellezze che inserire nella sua interezza in un film di due ore risulta un’operazione difficilissima e pericolosa. Perdersi qualche cosa di importante o addirittura stravolgere il senso di un’esistenza dolorosa e complessa diventano i rischi maggiori che si possono correre nel realizzare un racconto di questo genere. Maneggiare una vita come quella della cantante jazz inglese è un’operazione delicata che non tutti sono in grado di fare senza cadere nella trappola della semplificazione e della banalizzazione.

Detto questo, la regista inglese decide tuttavia di voler seguire un percorso ben delineato e volutamente superficiale che la mette al riparo dalla difficoltà estrema e insidiosa di addentrarsi troppo nell’anima di un’artista tanto tormentata quanto ancora troppo enigmatica ed unica. Il film vuole solamente sfiorare le problematiche serie e traumatiche che hanno travolto la gracile e delicata Amy. La Taylor-Johnson restituisce al pubblico, fans e non, la storia d’amore tra la cantante e Blake, inconsapevole musa di uno degli album più significativi della musica mondiale. Proprio perché Blake fu tanto deleterio e tossico per la giovane Amy, il secondo album della cantante di Candem fu un successo planetario che la portò a vincere cinque “Grammy!” e che la rese immortale nell’olimpo dei grandi, come Elvis o Kurt Cobain, come Charlie Parker o Morrison.

L’amore tossico e devastante tra i due, volutamente alleggerito nella forma e nella sostanza, diventa il perno su cui tutta la vicenda si poggia. Le ferite della cantante diventano i tatuaggi che scandiscono la sua vita, e il film. Le canzoni vengono contestualizzate ed inserite nella vita della cantante come fossero elementi architettonici statici ed estetici. Solo il calore intenso e graffiante di una voce unica riesce ad amalgamare e smussare la rigidità di alcune scene del film. La geometria delle sequenze, quindi, risulta troppo perfetta se a confronto della sguaiatezza e del disordine che imperavano nella vita della cantante. La narrazione pulita e mai sbavata si scontra con una sofferenza abissale che Amy Winehouse ha dovuto sopportare per gran parte della sua breve vita. Ma questo non toglie comunque al film un suo valido e coerente motivo di essere realizzato.

La visionaria artista Sam Taylor-Johnson, che già nel 2009 si era cimentata con il racconto di un gigante della musica come John Lennon con il piccolo “Nowhere Boy”, decide di ridurre al minimo l’esistenza travagliata e dolorosa della cantante cercando il più possibile di, almeno nel film, restituirle un po’ di dolcezza e di serenità che nella vita non ha praticamente quasi mai sentito. Il racconto è semplice e lineare e si inserisce in una proiezione drammaturgica di quello che è stato il percorso di vita della Amy adulta e dilaniata dall’amore tossico e non corrisposto con Blake. Le sequenze, legate solo da un debole collante fatto delle parole delle canzoni della cantante, si sviluppano attorno ad una dimessa volontà di scorgere il lato oscuro di una ragazza tormentata e disorientata.

La protagonista, brava e capace, spesso però sembra ricalcare più che interpretare le mosse della cantante durante le sue esibizioni. Questo è l’errore più diffuso quando un attore deve interpretare un’icona complessa ed enigmatica della musica o del cinema del passato. Tuttavia la bravura di Marisa Abela rende giustizia alla volontà di riportare in vita la piccola e potente Amy Winehouse in tutta la sua forza dirompente sul palco e in studio.

Probabilmente ci si dimenticherà presto di questo film, ma l’ingenuità artistica della regista può e deve essere compresa se pensiamo alla difficoltà quasi insuperabile di tratteggiare i lineamenti di un’ombra densa come è quella attorno al personaggio di Amy Winehouse. Questo film va a completare l’immaginario collettivo di chi ha assistito, quasi dieci anni fa, allo spietato ma sincero documentario “Amy” che non ha fatto sconti nel raccontare l’artista, la donna, l’anima.

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RIVISTO

AMY, di Asif Kapadia (Regno unito 2015, 128 min.).

Un vero capolavoro. Quasi un resoconto giornalistico che ha pescato dentro un archivio di immagini e di filmati gigantesco. La bravura del regista nel montare ogni sequenza ci fa quasi credere che Amy Winehouse abbia collaborato alla realizzazione del documentario.

Un’opera magnifica e necessaria per capire un po’ di più la difficile e sofferente anima della cantante inglese. Il documentario con la “D” maiuscola.

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