Il Viminale esploderà: il nuovo libro di Bobo Maroni. E se non fosse solo fiction?

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Bobo Maroni

VARESE – Il ministro dell’Interno si chiama Roberto Macchi, per gli amici Bobo. E’ di Varese, ama il blues,  è cofondatore di un partito populista e da parecchi anni è al fianco del suo capo anche per correggergli certe prese di posizione. Macchi? E se, invece, di cognome facesse Maroni? Ecco, appunto, Roberto Maroni che, assieme a Carlo Brambilla, è autore di “Il Viminale esploderà”, romanzo ad alta tensione la cui trama si snoda tra hacker, spie, potenze straniere, Vaticano e, appunto, il ministro Macchi. In ballo c’è la sicurezza del mondo, mica pizza e fichi. Tanta fiction, ma neanche tanta, un po’ di autobiografia dato che Roberto Bobo Maroni al Viminale c’è stato due volte, l’ipotesi di cosa potrebbe accadere se saltasse la cosiddetta cybersicurezza.

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Edito da Mursia, il libro sarà in  vendita da lunedì 17 ottobre. Occasione per un’ampia intervista che l’ex ministro, ex segretario della Lega, ex presidente della Regione Lombardia ha concesso, oggi 15 ottobre, al Corrierone. Lo scopo? Marketing, senza dubbio, ma subito dopo una serie di commenti, proposte, critiche alla politica italiana dei nostri giorni, in larga parte frutto del “già detto”, in alcuni passaggi novità più o meno da tenere in considerazione.

Come la certezza che il governo di Giorgia Meloni “durerà fino al termine della legislatura: la Meloni è capace di reggere la barra e resistere a tutte le… strambate”. O, ancora, una doppia stilettata: Matteo Salvini non è adeguato a ricoprire il ruolo di ministro dell’Interno (“Meglio il prefetto Matteo Piantedosi”) e, anzi, dovrebbe leggere i libri di Gianfranco Miglio “per imparare qualcosa della questione settentrionale”. Per continuare con la necessità che la Lega ha bisogno di una “guida moderata, senza cerchi magici attorno”; di più, che Giorgetti, Zaia e Fedriga sono da tenere in considerazione per la segreteria e, via di questo passo, fino all’accenno alla sua malattia, probabile causa che lo ha allontanato dalla scena politica attiva: “La malattia che mi ha colpito è una cosa che non trascuro, facendo tutte le cure necessarie. Ho capito che tra le cose importanti non c’è la politica con la ‘p’ maiuscola (…)”. E su Umberto Bossi: “Con lui non c’è mai stata guerra. M quando stette male, nel 2005, attorno a lui cominciarono a filtrare le sue decisioni”. Per ribadire: “Sono rimasto un sognatore (i ‘barbari sognanti’ ricordate?, ndr). La politica di oggi è molto diversa, ma penso ci voglia una buona dose di passione per fare bene il proprio lavoro. E parlo soprattutto del fare (…). Per un politico oggi il mestiere è principalmente il comunicare, inondando i social, persino TikTok”.

Già detto, appunto. Ma forse mai abbastanza rispetto a un contesto politico che è quello che è, bisognoso di leader finalmente all’altezza, con una qualità oggi misconosciuta: il saper ascoltare per apprendere il buono da chi può distillare e diffondere esperienza, quasi sempre sinonimo di saggezza.

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