VISTO&RIVISTO Il Quintana di Turturro tra iconografia e umanizzazione

minchella turturro visto rivisto

di Andrea Minchella

VISTO

JESUS ROLLS – QUINTANA E’ TORNATO, di John Turturro (The Jesus Rolls, Stati Uniti-Francia 2019, 117 min.).

Bello ma non convince. Turturro, dopo il bel “Gigolò per caso” del 2013, decide di avventurarsi in un’operazione complessa ed originale: rispolvera uno dei suoi più intensi personaggi, Jesus Quintana del “Il Grande Lebowski” dei fratelli Coen, e ci costruisce attorno un intero lungometraggio. Il film, remake del francese “I Santissimi” di Bertrand Blier, racconta le vicende dell’eccentrico quanto improbabile giocatore di bowling che, come già avvenne nel capolavoro dei Coen, invade lo schermo con i suoi atteggiamenti e la sua filosofia di vita preziosa e lineare.

In questa specie di “spin off” Turturro cerca di umanizzare una caricatura mitica e iconografica che, più di vent’anni fa, aveva tracciato in maniera folle il confine tra un personaggio vero e una figura mitologica della vasta e imprevedibile specie umana che popola l’immensa e stratificata Los Angeles. L’operazione di “umanizzazone” di una figura mitologica è sempre molto complessa, i cui risultati spesso non soddisfano l’idea alla base dell’intero processo. Anche in questo caso, infatti, la storia non riesce sempre a fornire al protagonista una dimensione necessariamente caricaturale come il personaggio, invece, richiede.

Quintana è la persona superficiale e profonda che ogni giorno incontriamo sul treno. Quintana è la persona sbruffona e sensibile che siede al tavolo a fianco al nostro nel ristorante italiano sotto casa. Quintana, infine, è il violento e romantico cittadino del mondo che gioca a bowling in due corsie più in là della nostra. Insomma, Jesus Quintana è un simbolo, un carattere, uno stato d’animo, a volte, che non può essere dipinto o raccontato con i canoni classici. E qui, forse, risiede il grande limite che neanche Turturro, bravo cineasta e fine autore, è riuscito a superare. La storia, ripresa da un vecchio film francese degli anni settanta, e la sceneggiatura, pur ben scritta dallo stesso regista, sembrano due elementi troppo piccoli per la smisurata vitalità e per l’esplosiva energia dell’istrionico sud americano. Turturro aveva talmente sconvolto i Coen durante la lavorazione del loro “Lebowski” da avere potuto dare spazio all’improvvisazione, tanto da dare vita, poi, ad uno dei caratteri più iconici del cinema degli ultimi trent’anni. Drugo, infatti, non poteva che avere due amici come Walter Sobchak, il gigante John Goodman, e, appunto, il colorato Jesus Quintana, il centrato John Turturro.

A parte questo grosso limite, il film risulta piacevole e la storia, fondamentalmente incentrata sul rapporto di tre persone, scorre serenamente tra scene ironiche e momenti più intensi in cui, però, il tempo per una riflessione risulta troppo limitato. L’amore incondizionato per una donna, che sia una compagna di vita o la propria madre, la perfezione del numero tre e la fondamentale funzione che la libertà ha nella vita di un uomo, sono i temi principali che la storia riesce a sfiorare senza mai appesantirne i toni.

Bravo Bobby Cannavale, intensa Susan Sarandon, troppo legata alla mitica figura di “Amelie” la meno centrata Audrey Tatou.

RIVISTO

IL GRANDE LEBOWSKI, Joel Coen (The Big Lebowski, Stati Uniti-Regno Unito 1998, 117 min.).

Nel 1998 i fratelli Coen, a due anni dal mitico “Fargo”, realizzano forse il film “del ritiro”, ovvero quel film dopo il quale un regista può ritirarsi perché ha raggiunto l’apice più alto della sua capacità artistica. E “Il Grande Lebowski” è certamente il più intenso e iconografico progetto che i Coen abbiano mai realizzato. Accolto freddamente da critica e pubblico, negli anni divenne una pietra miliare nella vasta e variegata produzione cinematografica americana.

Nata da un’idea dei fratelli Coen, il film racconta di una società satura di immagini e simboli. Il mondo in cui si svolge la vicenda è un mondo confuso, razzista e dove la violenza assume un ruolo quasi terapeutico per combattere la superficialità di sentimenti ed emozioni che la vita ormai può fornire. All’interno di questo contesto si muove il camaleontico e perfetto Jeff Bridges, Jeffrey Lebowski, che, in una Los Angeles miope e disordinata, vive una vita di ozio, noia e partite di bowling. I suoi amici, Quintana, Sobchak, Donny, fanno da cornice ad una vicenda di scambio di identità che diventa, poi, il fulcro dell’intera pellicola.

Un film pieno di immagini e simboli iconografici che lo rendono un tassello importante nella filmografia complessa e potente dei fratelli Coen. Un film in cui la profondità dei personaggi li rende veri e credibili, pur nelle loro follie e nei loro tratti extra-umani. “Il Grande Lebowski” rimane, a più di vent’anni dalla sua uscita, una puntuale e accurata descrizione di uno stato d’animo, quello degli anni novanta, carico di malinconia e disillusione dopo quello, artificioso e violentemente ottimistico, degli anni ottanta.

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