Mafia nel nord della provincia, Viazzo: «Nessun metodo mafioso»

VARESE – Inchiesta “Nerone”: processo subito rinviato a ottobre per i 17 imputati, alcuni dei quali sono accusati dell’aggravante del metodo mafioso. L’avvocato Corrado Viazzo, che difende buona parte degli imputati, ha immediatamente sollevato un’eccezione di competenza sia territoriale che funzionale, sostenendo che nessuno degli imputati si sia mai avvalso del metodo mafioso.

Processo rinviato

Sostanzialmente, ciò a cui punta l’avvocato Viazzo – togliendo l’aggravante del metodo mafioso – è di tornare in udienza preliminare. Ma non più a Milano, davanti alla distrettuale antimafia. Bensì a Varese. Il processo è stato rinviato al 3 ottobre. In quella data verranno valutate tutte le eccezioni da parte del collegio presieduto dal presidente Cesare Tacconi. Il rinvio si è reso necessario. Anche perché uno degli avvocati, nominato soltanto lo scorso 28 giugno, ha chiesto e ottenuto i termini a difesa. A ottobre, quindi, si saprà se il processo proseguirà con il dibattimento oppure se il collegio, lasciando cadere l’aggravante del metodo mafioso, rinvii tutti quanti davanti al gup per l’udienza preliminare a Varese.

Le indagini

Le indagini erano partite nel 2017 da una serie di incendi registrati in zona. Auto date alle fiamme: roghi dolosi al di là di ogni ragionevole dubbio. Questo tipo di reati viene definito “sentinella” dalle Dda di tutta Italia. Sono spie di quella che potrebbe essere un’attività criminale ben più complessa. Sono stati i carabinieri del reparto operativo del comando provinciale di Varese ad intuire uno scenario più ramificato e a dare il via ad un’indagine complessa e ad alta tecnologia con intercettazioni telefoniche e ambientali a tappeto. Nelle fasi iniziali l’indagine è stata coordinata dalla procura di Varese e l’inchiesta è arrivata a coinvolgere anche alcuni esponenti della magistratura la cui posizione è stata in seguito archiviata dalla procura bresciana, competente in materia.

Lo spaccio

Quando è apparso chiaro il ruolo apicale, stando a quanto ricostruito dagli inquirenti, di Giuseppe Torcasio, detto Zio Pino, in uno dei due sodalizi l’inchiesta è passata per competenza alla Dda di Milano. Zio Pino aveva un legame di parentela con Vincenzo Torcasio, detto “u Niuru” già condannato nel 2017 per associazione a delinquere di stampo mafioso e “contiguo” alla cosca Giampà. Sul fronte cocaina l’indagine ha ricostruito un business di “alto profilo” lontanissimo dallo spaccio nei boschi lasciato alla criminalità nordafricana. Un business che si consumava nei locali che si affacciano sul lago Maggiore e che vedeva tra i clienti italiani facoltosi.

Le estorsioni

Sul fronte estorsioni quella messa in piedi dall’organizzazione era una piccola “finanziaria locale” che prestava denaro salvo poi chiederne la restituzione con interessi da strozzino. Il “recupero crediti” avveniva con quel metodo mafioso che il pubblico ministero Cerreti ha contestato. Botte e minacce pesantissime ma anche «Avvalendosi della forza intimidatrice derivante dalla suggestione di un vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento ed omertà che ne derivano, in ragione della peculiarità delle richieste che esprimono tecniche collaudate tipiche del controllo del territorio». Le stesse “tecniche” venivano utilizzate, ad esempio, per farsi “sistemare” alcune pratiche edilizie. In quest’ambito era stato preso di mira un professionista “reo” di non avere evaso in maniera abbastanza celere la pratica edilizia relativa ad un cantiere riconducile a Torcasio. «Va ammazzato e basta», questo l’input per mettere “stress” al malcapitato geometra. 

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