Rossetti, Confindustria Alto Milanese: «Situazione dell’economia drammatica, occorre ripartire con date certe»

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LEGNANO – L’unico modo di uscire dalla crisi causata dal Covid-19 è far ripartire il prima possibile le attività produttive del territorio. Diego Rossetti, presidente dell’omonima azienda di calzature nota in tutto il mondo e di Confindustria Alto Milanese, ne è certo. Ma per farlo, sottolinea, occorre che gli imprenditori possano contare su certezze e date precise, così da potersi organizzare.

Presidente Rossetti, quali sono le conseguenze dell’emergenza sanitaria sull’economia del territorio?

«Al netto di alcune peculiarità, il settore industriale poteva sopportare qualche settimana di chiusura anche con una certa tranquillità. Adesso c’è una situazione di drammaticità esponenziale. Ogni giorno che passa, la situazione diventa sempre più drammatica. A questo punto non bisogna parlare di urgenza: bisogna stabilire delle date precise, perché non si può vivere nell’incertezza».

Ci sono settori che stanno soffrendo di più?

«Dobbiamo superare la logica dei settori: è tutto il tessuto imprenditoriale che sta soffrendo. Le faccio a puro titolo di esempio quello dei calzaturieri. Noi siamo chiusi con la produzione, è un problema ma possiamo sopportarlo. Quello di cui abbiamo assolutamente bisogno è far entrare in azienda alcune persone per cominciare a lavorare sulle collezioni, altrimenti tra un po’, quando ci daranno il permesso di tornare a produrre, non sapremo che cosa produrre, perché non avremo fatto i campionari».

Come si può uscire da questa situazione?

«Bisogna dare termini precisi agli imprenditori, dargli responsabilità e far sì che, in base alle regole stabilite, possano rossetti presidente confindustria altomilaneseriaprire tutti. Ho letto un’affermazione del ministro Boccia (Francesco, titolare degli Affari regionali, nda) che non ho parole per giudicare. Dice che capisce la posizione degli imprenditori perché “sono assetati di denaro”. Quando un ministro ha questa mentalità, siamo messi molto male».

Che cosa si aspettava dal governo nazionale?

«Un livello di comprensione ben diverso. C’è un’emergenza sanitaria drammatica. Ci sono medici, infermieri, volontari che lavorano sette giorni su sette dieci ore al giorno. All’INPS stanno lavorando sette giorni su sette per risolvere i problemi? I cda delle banche si riuniscono venti volte al giorno? Non c’è il senso della drammaticità del problema. Sento dire: “Ci vorrà del tempo”. Se un ammalato di coronavirus in insufficienza respiratoria se lo fosse sentito dire in ospedale, che cosa avrebbe pensato? Di morire quand’era ancora nel piazzale dell’ospedale?».

Perché il nostro sistema produttivo ha impiegato tanto a convertirsi per produzioni semplici come quella di mascherine e ha dovuto importarle dall’estero?

«Le mascherine le fanno in Cina, dove sono attrezzati per farle a prezzi bassi. Io faccio scarpe: se mi dicessero “da domani fai stivali di gomma”, è tutta un’altra roba, non posso farli. Sono stupefatto, semmai, per la rapidità con cui certe aziende sono riuscite ad adeguare la loro produzione. La si fa facile, ma c’è anche un problema di normative tecniche, di test, di omologazioni. Senza contare il costo di un operaio in Italia e che cosa viene a costare una mascherina. Non si poteva addossare al sistema industriale italiano una simile responsabilità: il sistema industriale va dove va il mercato. Certi prodotti a basso costo da sempre si fanno all’estero. Era lo Stato che avrebbe dovuto avere uno stock, che so, di 50 milioni di mascherine come quello di “razioni K” della Protezione Civile per i terremoti».

Di che cosa ha più bisogno l’industria dell’Alto Milanese per ripartire?

«Di certezze e di tempi rapidi. Ci devono dire che cosa fare ed entro quando. Cito ancora il mio caso ad esempio. Noi abbiamo bisogno di mandare a lavorare urgentemente dieci persone in 600 mq: non penso ci sia un problema di distanziamento fra loro. Non possono lasciarci in questa incertezza, perché ci troveremmo alla devastazione. Arriveremmo al punto che, come i medici nel picco della pandemia dicevano di dover scegliere chi salvare perché non avevano abbastanza letti, ci saranno persone ben felici di affrontare il rischio, ma anche la certezza di essere contaminate pur di lavorare. Perché quando poi il sistema sarà devastato, quando non ci saranno più posti di lavoro e le aziende saranno tutte chiuse, avremo salvato sicuramente qualche vita in più, avremo curato delle persone in più, ma sentiremo dire “non muoio di malattia, ma muoio di fame”. E saremo arrivati a livelli di preoccupazione enormi».

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