Toh, a Varese e Busto esiste anche il carcere

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I Miogni di Varese e la Casa circondariale di Busto Arsizio

Carceri, carcerati, fare rete per favorire il reinserimento dei detenuti nella società. E’ uno dei temi che, in queste settimane, tiene banco nelle sedi istituzionali, nel dibattito politico e sui media del territorio varesino. Sembra che, più o meno all’improvviso, in provincia di Varese si sia scoperto che esistono realtà carcerarie tenute sullo sfondo per anni e, adesso, poste sotto i riflettori come prioritarie rispetto ad altre questioni. Persino il Busto Arsizio Film Festival ne ha preso atto ospitando, domenica sera, i protagonisti di “Mare fuori”, fiction televisiva di successo che ha scatenato, al Baff, l’entusiasmo del pubblico. Ma dubitiamo che sia per i contenuti della serie Tv, e non per quei meccanismi di eccessiva visibilità, di pseudo-divismo che elettrizzano i fans. Che ci sia molto di effimero in tutto questo, ci pare ovvio.

Altro il discorso sulle attività che, soprattutto attorno alla Casa circondariale di Busto, impegnano volontari e esponenti istituzionali, associazioni e rappresentanti dello stesso mondo carcerario. Un attivismo commendevole, che trova legittimazione addirittura nel prefetto Salvatore Pasquariello, che ha convocato una serie di enti, politici e quant’altri coinvolti nella specifica questione. Lo scopo è di organizzare, come punto di partenza, un convegno nel quale discutere il ”fare rete e aprire le porte al reinserimento lavorativo e sociale dei detenuti”.

Nulla da eccepire, ci mancherebbe altro. Se non fosse che i due isituti di pena della provincia, a Varese e a Busto Arsizio, non sono il massimo dell’efficienza e della funzionalità. Problemi strutturali e di sovraffollamento impediscono il reale recupero di coloro che sono in condizioni restrittive. La  Casa circondariale bustocca ha ricevuto anche una deplorazione ufficiale dall’Unione Europa per le condizioni di vivibilità degli ospiti. Stiamo parlando di un carcere che sarebbe dovuto essere modello, ma che oggi non risponde ai requisiti di legge. Basta un dato: ogni detenuto ha a disposizione tre metri quadrati pro capite. La vicinanza di Malpensa fa aumentare a dismisura la popolazione carceraria, con tutte le conseguenze del caso. Da anni si parla di un suo eventuale ampliamento o, meglio, adeguamento, senza che si sia intervenuti in maniera esaustiva.

Per non dire dei Miogni di Varese, struttura obsoleta, fuori misura per cento, mille motivi. Una Casa circondariale che meriterebbe un unico sbocco: la chiusura. Ma la costruzione di un istituto di pena nuovo è racchiusa nel chiacchiericcio, negli auspici e nelle promesse della classe politica. I tentativi di dare il via a un appalto e al relativo cantiere sono regolarmente naufragati, sia per la scarsa disponibilità delle istituzioni sia per questioni logistiche. E chi ha osato sussurrare la possibilità di realizzare un unico istituto provinciale con l’ampliamento di Busto Arsizio è stato subito fustigato con reazione campanilistiche.

Cosicchè ci si rimbocca le maniche soltanto per dare opportunità ai detenuti. Giusto. Bisognerebbe però pensare al loro contesto detentivo. Il loro e di chi è preposto alla gestione e alla custodia delle due strutture. Le carenze degli organici della polizia penitenziaria sono note da sempre, né gli agenti possono svolgere efficacemente il loro compito in ambienti ristretti, sovraffollati e, peggio ancora, fatiscenti. Soluzioni? Qualche ritocco, alcune proposte, scarse soluzioni vere. Poi, per carità, pensiamo agli aspetti sociali, senza dimenticare che a monte ci sono altri problemi, destinati a frenare la spinta solidaristica alla quale abbiamo accennato. Se il recupero di un detenuto è irrinunciabile, ancora più pressante è la sua condizione in carcere. Questa dovrebbe essere la precondizione di ogni altra iniziativa. A meno che, come spesso accade nel  nostro Paese, nessuno si assumi fino in fondo responsabilità e impegno e tutto si riduca al solito infruttuoso e dannoso bla bla.

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