Varese, estorsioni e spaccio con metodo mafioso: via al processo

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VARESE – L’inchiesta “Nerone“, coordinata dalla Dda di Milano, ha ridisegnato la geografia criminale del Nord della provincia di Varese mettendo sul territorio due diverse associazioni a delinquere non nemiche tra loro, ma anzi con alcuni punti di contatto nell’ambito dello spaccio di droga. Chiuse le indagini il 9 marzo il procedimento arriverà davanti al Gup: 17 de 19 indagati sapranno in quella data se saranno rinviati a giudizio o meno. I due indagati restanti: in un caso si tratta del gestore di uno dei locali presi di mira dal sodalizio che ha chiesto di essere ammesso al rito abbreviato. L’altro indagato è un ex carabiniere, all’epoca in servizio nella compagnia di Luino, accusato di aver passato informazioni sottobanco che ha chiesto la messa alla prova.

Gli incendi spia

Il pubblico ministero della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano Alessandra Cerreti (la stessa dell’inchiesta Krimisa nel sud della provincia di Varese) aveva chiuso le indagini nel 2021 come riportato da Malpensa24.  L’accusa più pesante è quella di associazione a delinquere aggravata dal metodo mafioso. Le indagini hanno preso l’avvio nel 2017 da una serie di incendi registrati in zona. Auto date alle fiamme: roghi dolosi al di là di ogni ragionevole dubbio. Questo tipo di reati viene definito “sentinella” dalle Dda di tutta Italia. Sono spie di quella che potrebbe essere un’attività criminale ben più complessa. Sono i carabinieri del reparto operativo del comando provinciale di Varese ad intuire uno scenario più ramificato e a dare il via ad un’indagine complessa e ad alta tecnologia con intercettazioni telefoniche e ambientali a tappeto. Nelle fasi iniziali l’indagine viene coordinata dalla procura di Varese: l’inchiesta arriva a coinvolgere anche alcuni esponenti della magistratura la cui posizione sarà in seguito archiviata dalla procura bresciana, competente in materia.

Zio Pino e “u Niuru”

Quando appare chiaro il ruolo apicale, stando a quanto ricostruito dagli inquirenti, di Giuseppe Torcasio, detto Zio Pino, in uno dei due sodalizi l’inchiesta passa per competenza alla Dda di Milano. Zio Pino ha un legame di parentela con Vincenzo Torcasio, detto “u Niuru” già condannato nel 2017 per associazione a delinquere di stampo mafioso e “contiguo” alla cosca Giampà. Sul fronte cocaina l’indagine ricostruisce un business di “alto profilo” lontanissimo dallo spaccio nei boschi lasciato alla criminalità nordafricana. Un business che si consuma nei locali che si affacciano sul lago Maggiore e che vede tra i clienti italiani facoltosi.

Lo strozzinaggio

Sul fronte estorsioni quella messa in piedi dall’organizzazione era una piccola “finanziaria locale” che prestava denaro salvo poi chiederne la restituzione con interessi da strozzino. Il “recupero crediti” avveniva con quel metodo mafioso che il pubblico ministero Cerreti contesta. Botte e minacce pesantissime ma anche «Avvalendosi della forza intimidatrice derivante dalla suggestione di un vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento ed omertà che ne derivano, in ragione della peculiarità delle richieste che esprimono tecniche collaudate tipiche del controllo del territorio». 

Va ammazzato e basta

Le stesse “tecniche” venivano utilizzate, ad esempio, per farsi “sistemare” alcune pratiche edilizie. In quest’ambito era stato preso di mira un professionista “reo” di non avere evaso in maniera abbastanza celere la pratica edilizia relativa ad un cantiere riconducile a Torcasio. «Va ammazzato e basta», questo l’input per mettere “stress” al malcapitato geometra. «Con il picco non con le mani. Però ci vuole una moto, si mettono un coso di lana in testa». E ancora: «Se lui vuole morire di mano mia me lo dici, mi chiudo e lui è morto, ma lo spacco davanti alla moglie e la figlia. Lo faccio fare nero». Il 9 marzo davanti ai giudici del Tribunale di Milano si decide sul processo.

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