Andrea Staid, antropologo: ripensare stili di vita prima che sia tardi

Distruggere l'ambiente significa distruggere noi stessi. Siamo su un treno lanciato verso l'abisso. Ecco come fermarlo (o quantomeno rallentarlo)

Andrea Staid

Quale futuro abbiamo davanti? Il pianeta ha superato quota 8 miliardi di abitanti, la popolazione mondiale continua ad aumentare esponenzialmente, mentre diminuiscono le risorse disponibili, incluse quelle alimentari, cresce l’inquinamento di mari, terre e atmosfera. I governi e le istituzioni, a cominciare dall’Ue, elaborano piani a raffica per tentare di contenere l’impatto ambientale, ma nuvole scure si addensano all’orizzonte: c’è chi sostiene che il punto di non ritorno sia stato superato e chi invece pensa che – con l’impegno di tutti – il declino sia evitabile. Prima il covid, poi la guerra infinita in Ucraina, ora la folle violenza in Israele e Palestina, l’inquietante aumento delle tariffe energetiche, le speculazioni di portata globale, l’escalation dei prezzi dei beni di prima necessità, il turbocapitalismo nel quale siamo risucchiati: questo lo scenario attuale, mentre si allarga il divario fra ricchi e poveri (che sono sempre di più). Pertanto la domanda si fa ancor più insistente: quale futuro abbiamo davanti? Per gettare uno sguardo sul futuro, Malpensa24 ha intervistato Andrea Staid, antropologo, già professore all’Università dell’Insubria di Varese, attualmente professore di Antropologia culturale all’Università di Genova e al NABA di Milano, il quale ha sviluppato ricerche etnografiche in gran parte del mondo, proponendo riflessioni sulle culture vernacolari cioè di antiche (e sapienti) tradizioni, per un ripensamento radicale del nostro modo di vivere.

Professor Staid, nel suo libro “La casa vivente. Riparare gli spazi, imparare a costruire” (ADD editore, 2021), lei spiega come ripensare la casa e abitare nel luogo antropologico per eccellenza: la casa appunto. Ma non è forse una metafora per ripensare e ridisegnare la propria vita?

Sì assolutamente. La società contemporanea è sempre più individualizzata e un ripensamento della casa da un punto di vista ecologico e sociale comporta un ripensamento del nostro modo di vivere e ci induce a pensarci come co-individui, ovvero come soggetti  che si inseriscono e formano una comunità. Parto da una constatazione antropologica: la casa e l’abitare non sono soltanto uno stare in un luogo ma essere in quel luogo. E’ dunque fondamentale ripensare noi stessi qui e ora. Il modo in cui costruiamo le nostre case dà forma al nostro mondo simbolico e identitario.

In questo libro lei racconta la sua esperienza personale, di antropologo che ha deciso di lasciare Milano e di vivere appunto da “antropologo” in un piccolo paese arroccato sulle montagne liguri, nel segno dell’interazione con l’ambiente e la natura di cui l’uomo è solo una piccola parte. E’ stata ed è una scelta impegnativa e difficile?

No, non è stata una scelta difficile. La mia scelta è stata determinata anche dalla fortuna di vivere scrivendo libri e insegnando. Mi rendo conto che non è una proposta che si può fare a tutti, quindi non voglio mostrarmi assolutamente come un modello del cambiamento. La mia scelta è stata disertare la società della competizione e della crescita e questo mi ha riconnesso con tutto quello che mi circonda che non è fatto soltanto di animali umani, ma di vegetali, animali e minerali. Ma attenzione, anch’io vivo la città, la frequento non sono chiuso nel mio eremo. Ho inserito queste riflessioni sul rapporto “oltre” la nostra specie, sulla dicotomia tutta occidentale “natura-cultura” nel mio ultimo libro “Essere natura” pubblicato da UTET dove propongo di ripensare la nostra relazione con l’ambiente in un periodo di crisi climatiche: il nostro rapporto con la natura – e non per niente il titolo che ho scelto è “Essere Natura” – passa attraverso il tentativo di eliminare la dicotomia che ci separa dall’ambiente. Noi siamo nell’ambiente, ne siamo parte integrante. Distruggere l’ambiente significa distruggere noi stessi. Vivere in un piccolo paese sulle montagne liguri mi ha aiutato molto in questa riconnessione. Inoltre mi hanno aiutato i lunghi periodi di ricerche antropologiche e viaggi che ho svolto nel sud-est asiatico, fra comunità indigene che mi hanno fatto capire cosa significa “essere natura”. Attenzione, perché anche nell’ambito urbano è possibile ricongiungersi alla natura: la città può essere tranquillamente ripensata. Io sono contro le megalopoli in quanto rappresentano il processo di distruzione che tutti stiamo vivendo, ma le nostre città possono essere ripensate e vissute come comunità indirizzate verso sistemi di produzione e di consumo sostenibili, città che adottano appunto stili di vita differenti ed economie circolari, basate sulla reciprocità, sulla condivisione, sulla sostenibilità. Di certo non possiamo pensare le città del futuro come blocchi di cemento, macchine  e condizionatori d’aria sempre accesi.

Diminuiscono le risorse (basti pensare alla scarsità di quelle idriche che la scorsa estate attanagliava le regioni dell’arco alpino), crescono la popolazione mondiale (superati gli 8 miliardi), la devastazione del pianeta, l’inquinamento e, come citava lei, le anomalie climatiche. La sensazione è che la società sia comodamente seduta su un treno in corsa lanciato verso l’abisso, nell’indifferenza generale (proclami a parte). Lei crede che questa folle corsa del treno su cui viaggiamo si possa arrestare? O quantomeno rallentare? Insomma, secondo Lei come andrà a finire?

Come andrà a finire non lo so. Sicuramente siamo messi male. E lo affermiamo in tanti, sono molti gli studiosi che lavorano in modo interdisciplinare per comprendere la grande crisi climatica contemporanea. Il treno è in corsa ma anche se non ho certezze su come andrà a finire, ho certezze su un punto: piuttosto che aspettare che il treno si schianti restando seduti su un divano mangiando il panino di un fast food magari acquistato da uno dei famosi siti che sfruttano le persone e inquinano tantissimo, preferisco cambiare subito la mia vita e quindi rallentare. Badate bene: rallentare non è una politica di rinuncia bensì è una politica del desiderio e del cambiamento verso una vita migliore. Una società ecologica, più comunitaria, è innanzitutto più divertente, più bella: ci fa apprezzare la reciprocità, la gioia di lavorare meno per i soldi e più per la comunità in cui siamo inseriti e in cui ci riconosciamo. Riscoprire questo valore ci dà la possibilità di rallentare la folle corsa del treno e forse di non schiantarci. Ma se proprio sarà inevitabile schiantarci, beh quantomeno ci schianteremo più felici rispetto a come invece siamo adesso.

Si può dunque pensare di saltare giù dal treno prima che sia tardi? E in che modo? Qualche consiglio pratico?

Innanzitutto bisogna affrontare una questione molto spinosa che è il sistema economico in cui siamo inseriti. Ci sono cose semplici che potremmo fare ma che hanno inevitabili conseguenze economiche. Penso ad esempio al blocco della produzione di plastiche: si dovrebbe attuare subito, ma quando fu ipotizzata una piccola legge per ridurne la produzione ci fu il sollevamento delle lobby. Ciascuno di noi può però ridurre il consumo individuale di plastiche, per esempio quando va a fare la spesa, e ciò comporterebbe una conseguente riduzione delle produzioni. C’è poi la mobilità urbana che dovrebbe essere collettiva e non su auto private supergrandi e superinquinanti: andrebbero utilizzate di più quelle macchine elettriche collettive che esistono da un secolo: treni, tram, filobus. Poi ci sono tanti piccoli rituali che possono produrre grandi cambiamenti, ad esempio il riciclo degli oggetti: ci hanno abituato ad accettare l’obsolescenza programmata degli oggetti che devono essere buttati il prima possibile per essere subito ricomprati. Ciò ci costringe quindi a continuare ad acquistare cose. Invece gli oggetti possono essere condivisi con le persone vicine a noi e quando si rompono possono essere riparati. Ed è tutto più facile di quello che pensiamo. Un elemento chiave è lo spreco domestico dell’acqua a fronte della sua scarsità: un buon uso domestico attraverso il riciclo è una piccola ma al contempo grande cosa tranquillamente attuabile.

Professor Staid torniamo al suo libro “La casa vivente”: dopo aver studiato il mondo, lei porta una serie di esempi di integrazione fra casa (e relativi stili di vita) e territorio, integrazione tipica delle popolazioni indigene ma anche della nostra cultura vernacolare. La via maestra dunque è un ritorno al passato attraverso l’ibridazione con la nostra contemporaneità?

Sì. E’ un processo difficile ma possibile. Come si può rallentare o scendere da quel treno di cui parlavamo prima? Beh dobbiamo decentrare il nostro sguardo occidentale, distoglierlo dalla convinzione che saremo noi a trovare soluzioni ai problemi che noi stessi abbiamo creato. Ci sono società lontane dalla nostra visione distruttrice dell’ambiente che sono interessanti per ripensare e ricalibrare l’impatto antropocentrico sul nostro pianeta. Certo, si tratta di mettersi in discussione: ciò porterà una vita migliore per tutti e sotto ogni aspetto. E di questo sono convinto. Ci sono già diverse centinaia di comunità in Italia che stanno facendo queste cose.

Comunità che sono già scese dal treno, per restare nella metafora?

Sì, ci sono tanti che sono già scesi dal treno, anche se la maggioranza non ha ancora compreso il pericolo a cui stiamo andando incontro e continua a viaggiare sul treno, ovviamente in seconda classe. Mentre altri, i pochi, viaggiano – pur sempre sul treno – in prima classe.

Secondo lei la tecnologia è una trappola?

Sì la tecnologia è una trappola se utilizzata male, ma non sono affatto contrario all’innovazione tecnica. Occorre una gestione intelligente della tecnologia. Io non sono contro le auto elettriche, sono contro i suv elettrici che costano una fortuna, vanno a 200 all’ora e inquinano probabilmente  di più di un’auto piccola a combustibile fossile: produzione delle batterie, estrazione della materia, smaltimento… E’ importante inserire, all’interno degli stili di vita di cui abbiamo parlato, una tecnologia sostenibile: se uso un pannello solare per tenere acceso il condizionatore tutta l’estate e avere sempre 18 gradi in casa significa che non ho capito come impiegare la tecnologia, in quanto – oltre a farmi male – consumo inutilmente risorse energetiche, dato che basterebbe aprire le finestre e arieggiare gli ambienti o coibentare con i giusti materiali naturali per avere un comfort addirittura migliore. Il punto quindi è come utilizziamo la tecnologia. E oggi la stiamo utilizzando molto spesso male: in modo illimitato in un pianeta con risorse limitate.

Nel suo testo parla di turbocapitalismo, come causa di molti dei mali dei nostri tempi. A suo giudizio, è tempo di voltare pagina? E in che modo è realistico pensare di farlo?

Non credo che nella nostra contemporaneità sia possibile attuare cambiamenti radicali come quelli che hanno caratterizzato il Novecento. Non credo alla rivoluzione come un unico evento. Credo invece che il processo di cambiamento e di critica al capitalismo sia un processo di educazione e mutazione culturale che ci deve permeare, per farci diventare dei “disertori della crescita”, cioè persone che cominciano a vivere in modo diverso, in comunità autentiche. Non è facile, lo so, e tutto ciò potrebbe produrre conflitti sociali. Ma il cambiamento è necessario. Ci occorrono nuove coordinate.

Posto che ci si riesca, cosa ci sarà dopo il turbocapitalismo? Quale futuro di aspetta da qui a cinquant’anni?

Una parte di me è pessimista e a fronte di crisi climatiche, guerre e decisioni politiche assurde non vedo nulla di buono da qui a cinquant’anni. Un’altra parte di me invece è positiva ed emerge soprattutto quando parlo ai ragazzi: mi dà molta speranza il veder fiorire comunità basate sulla reciprocità, sulla condivisione, sul muto appoggio: la bellezza di guardarsi negli occhi e vivere insieme basandosi su economie circolari e non di profitto. Tutto dipende da noi. Oggi.