E se non fossero soltanto femminicidi?

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di Andrea Minchella

Viene scomodata addirittura Antigone. E il concetto atavico, ancestrale e biblico del patriarcato. Va bene. Per esorcizzare un’altra vittima di un atto incomprensibile e ingiustificabile è permessa qualsiasi reazione. Ma il rischio di perdere la lucidità è altissimo. L’omicidio di Giulia Cecchettin si è trasformato nel giro di poco tempo in un catalizzatore, l’ennesimo, di un’opinione pubblica ormai ossessionata da ogni forma di violenza, la quale, che sia di genere o no, sembra essere diventata un’abituale forma di interazione tra gli individui della società contemporanea. La violenza è ormai dappertutto: in televisione, in politica, nella scuola, nello sport. Siamo inglobati e centrifugati da un linguaggio pieno di parole e di forme retoriche aggressive e rabbiose. Ne siamo artefici e vittime allo stesso tempo. Ci stupiamo e ci meravigliamo quando, di nuovo, viene uccisa una ragazza, o muore un bambino per mano della madre.

Senza nemmeno capire, ed è spesso difficile decifrare l’esatta dinamica fisica e psicologica di un omicidio, giudichiamo ed etichettiamo ciò che è appena accaduto. Quasi per tutelarci, non si sa bene da che cosa, ci affrettiamo a rielaborare ed archiviare l’omicidio del giorno o lo stupro del momento. Ormai il giudizio individuale, fatto di riflessioni mai definite e di analisi sempre perfezionabili, viene ripetutamente sostituito da una sorta di assordante coscienza collettiva che divora ogni tentativo di capire le ragioni di tanta violenza e le peculiarità, infinite, di ogni omicidio che viene commesso. Il marito geloso siciliano che uccide la moglie, madre dei suoi figli, e poi si toglie la vita è presumibilmente diverso, nei motivi e nel contesto, dal ragazzo friulano che uccide la fidanzata e poi cerca di incolpare qualcun altro. Il ricco borghese che ammazza la madre ha motivazioni completamente diverse dalla madre povera e incolta che lascia morire di stenti la propria figlia.

Tutti omicidi, chiaramente diversi tra loro, che vengono regolarmente inseriti in un unico contenitore. Forse il comune denominatore, ad un primo sguardo, tra i tanti casi di cronaca che si susseguono numerosi è la presenza di vittime che uccidono altre vittime. Persone che hanno perso la via della ragione e della coscienza a favore di un percorso di vita buio fatto di paure, angosce e distacchi dalla realtà. Eppure questi assassini, sempre più spesso, diventano i bersagli facili di un’onta spietata che deve trovare il colpevole ad ogni costo. La società ha bisogno di individuare il colpevole, di accusarlo, di condannarlo. Come se questo possa disincentivare altri casi simili. Ma così non è. Ogni giorno qualcuno viene ucciso da qualcun altro. Spesso per motivi futili o a causa delle fragilità dell’assassino che non riesce a rielaborare un lutto, una separazione, una perdita o un abbandono.

Il caso di Giulia, rapidamente archiviato come ennesimo caso di femminicidio (etichetta che credo aumenti il gigantesco divario tra uomini e donne tanto osteggiato dall’opinione pubblica), ritengo sia più complesso di come vogliamo ci venga descritto. Il fidanzato di Giulia sembra più un incapace sentimentale affetto da qualche grave disturbo che uno spietato omicida. Giustamente la giustizia si assicurerà che il Turetta non sia più pericoloso per la comunità e che possa cominciare un lungo e difficile percorso di recupero (questa è la finalità del carcere), ma la società civile, a partire dall’opinione pubblica, dovrebbe fare uno sforzo maggiore per capire le vere ragioni di Filippo considerando l’ambiente in cui questo omicidio è maturato. Se si tratta di devianza psichica, ci si dovrebbe chiedere se questo paese ha attivato tutti i presidi necessari per individuare e trattare certe problematiche. Io credo di no.

Penso che lo Stato abbia la grave colpa di avere negli anni smantellato le strutture necessarie per assistere tutti quegli individui, e le loro famiglie, che cercano da soli di gestire una malattia psichiatrica tanto invalidante e devastante come qualsiasi altra grave patologia. Non credo che Filippo sia vittima di un patriarcato che, tra l’altro, sembra ormai evaporato (come spiega Massimo Recalcati in parecchi suoi saggi) a favore di un’anarchia familiare che genera individui fragili e insicuri. Questi, in gravi momenti di difficoltà, potrebbero anche compiere omicidi per riempire quei solchi dell’anima lasciati vuoti dalla testimonianza affettiva di un genitore. Credo che Filippo Turetta abbia agito in un contesto asettico, impermeabile alle difficoltà che un individuo può avere e ai gridi d’aiuto che spesso rimangono inascoltati.

Mi spaventa, in questi casi, il desiderio di muovere forconi nei confronti di chi ha commesso un delitto brutale con una totale, o parziale, assenza di lucidità psichica. Mi spaventa l’idea che la perizia psichiatrica sia vista come una “scorciatoia giudiziaria” e non come una fondamentale e giusta ricerca dello stato effettivo di coscienza dell’omicida. Si invoca la giustizia giusta ma poi si storce il naso se qualcuno viene considerato non in grado di intendere e di volere, come se un omicidio non rientrasse in quei casi in cui un esecutore può non essere in sé quando compie quel delitto.

Comprendo lo sfogo della sorella di Giulia che esorcizza la tragedia che le è capitata ergendosi a metro di misura dell’etica e della morale familiare della società contemporanea. Ma credo che quello debba rimanere uno sfogo e non diventare, come sembra stia succedendo, un apparente e improbabile spartiacque tra la società sbagliata, quella di ieri, ed una società giusta, quella di domani. Questa facile illusione che l’opinione pubblica, carica di retorica e ipocrisia, vuole imporsi rischia soltanto di rendere ancora più difficile e tortuoso il cammino lungo e complesso che questa società deve compiere per una necessaria e vera parità di genere.

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