di Massimo Lodi
Gli ultimi sondaggi confermano: vincerà la destra. Si tratta di capire in che modo: con il margine parlamentare sufficiente a governare da sola oppure no. Nel primo caso si aprirà una questione di leadership: nessun dubbio (1) che spetti alla Meloni la carica di premier, visto che trionferà sugli alleati di coalizione. Nessun dubbio (2) che i sodali s’adopreranno per impedirne l’insediamento a Chigi. L’hanno sempre considerata una partner gregaria, mai una possibile socia di maggioranza relativa: prendere atto della “diminutio” non si rivelerà facile, i capi di Forza Italia e Lega sono abituati a comandare anziché obbedire.
Nel secondo caso, Giorgia potrebbe guardare a intese trasversali e costituire un governo inedito. Forse non di mezza unità nazionale e neppure un simil Ursula con lei al posto dei Cinquestelle, però qualcosa di sorprendente e largo, sì. L’emergenza incombe, l’autunno sarà bollente, s’impone un esecutivo saldissimo per fronteggiare rovesci economico-sociali in impetuoso arrivo. I colloqui con Draghi hanno chiarito l’orizzonte cupo alla Meloni. Se non di lui, avrà bisogno di sue filiazioni, altrimenti rischia d’intestarsi lo schianto del Paese.
I numeri demoscopici danno in sofferenza Pd e Lega. Se ne capisce il motivo. Letta passa da una topica all’altra, l’ultima è attribuire a Renzi ogni colpa, presente e pregressa, del Pd. Verso il KO l’ammuffita campagna per il voto utile, avanza la strategia banale del volto utile. Di Renzi, appunto. Che però va consolidando assieme a Calenda il Terzo Polo: il consenso cresce. Potrebbe allargarsi nel mare del 34 per cento degli astensionisti e fra le onde del 10 per cento degl’indecisi. Se i due facessero un boom da doppia cifra, risulterebbero utili non a Letta, ma alla Meloni. Sempre a proposito di Letta: incerto e contraddittorio fra sguardi a sinistra e al centro, è riuscito a rilanciare perfino Conte, che due mesi fa sembrava un “de cuius”, dopo aver innescato il Draghicidio. Si poteva sbagliare di più? Non si poteva.
Quanto a Salvini, vive nell’angoscia d’essere sorpassato al Nord da Fratelli d’Italia. Il recente viaggio propagandistico lungo la direttrice padano-veneta è stato tutto tranne che un successo. I governatori Zaia e Fedriga l’han scortato obbedienti e muti. Le candidature decise dal segretario ignorando le aspettative locali (com’è successo altrove, e in Lombardia lo sappiamo bene) ne comportano una precisa assunzione di responsabilità: i governatori si defilano. La possibile sconfitta – se non peggio – nella competizione con Meloni e Berlusconi gli verrà attribuita per intero, con le conseguenze del caso. Figuriamoci se poi non dovesse ottenere ciò che reclama dal 2019: il ritorno al ministero degl’Interni.
Questo poco raccontato, e al netto delle obbligate ovvietà, aspettiamoci qualunque sorpresa. Ce ne sono sempre state, nei recenti verdetti elettorali e alla faccia degli esperti d’intenzioni di voto. La certezza è una sola: l’Italia, alle prese con la tragedia epocale a ciascuno nota, avrà bisogno d’una classe dirigente di qualità operativa, saldezza morale, profilo rassicurante. Si pretendono competenza e realismo per ritrovare fiducia e speranza. Siamo sul ciglio del burrone e vogliamo solo essere salvati, non c’importa il colore delle casacche dei soccorritori.