Kristian Sbaragli: “La Corratec per me è una nuova sfida”

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Durante la settimana delle gare venete di Pippo Poz­za­to due mesi fa, sue ultime uscite in maglia Alpecin Deceu­ninck , era stato chiaro Kristian Sba­ragli ai no­stri microfoni: «Voglia di correre per dimostrare ancora il mio livello sì, car­te false pur di correre no». Insom­ma, continuo se trovo il progetto giusto. E alla fine l’ha trovato, nella sua To­sca­na: abbiamo richiamato il 33enne di Castelfiorentino pochi giorni dopo la sua firma per la stagione 2024 con il Team Corratec Selle Italia.

Kristian, ci racconti il tuo passaggio al ProTeam di Montecatini?
«Al termine di un bellissimo quadriennio in Alpecin Deceuninck, in cui ho vissuto da gregario la vittoria di Van der Poel alla Milano-Sanremo e due anni fa ebbi la responsabilità di sostituirlo nell’Amstel Gold Race arrivando settimo, sarei rimasto volentieri, però a fine agosto abbiamo capito che avevamo prospettive differenti. A quel punto ho preso in considerazione diverse op­zioni e ipotesi, persino quella di dire ba­sta, non mi vergogno a dirlo. A inizio ottobre è entrata in scena per la pri­ma volta la Corratec Selle Italia e nella seconda metà del mese, dopo le corse in Veneto, mi ha chiamato Claudio La­strucci: con la sua Hopplà è sponsor del team Corratec, era sponsor della Van­gi dove feci il biennio junior ed è patron della squadra dilettantistica do­ve disputai i miei quattro anni da Un­der 23. Con lui ho un buonissimo rapporto, ci siamo visti un paio di volte e abbiamo parlato tanto: ho riflettuto su quanto mi ha detto e alla fine mi sono convinto a sposare la causa di questa formazione con la sede a venti chilometri da casa mia, della quale conoscevo già Serge Parsani, Fran­ce­sco Frassi e diversi elementi dello staff. Ho firmato e il team ha comunicato sui social l’avvenuta operazione in maniera originale e simpatica».

Cosa rappresenta per te questo nuovo ca­pitolo?
«Un progetto interessante che si può adattare perfettamente a questo mo­mento della mia vita ciclistica. Per la prima volta da professionista corro per una squadra italiana, per di più toscana! Il contratto è di un solo anno, ma non perché poi voglia smettere, anzi: al termine della prossima annata voglio valutare com’è andata nel complesso, tirare una riga e vedere se sono riuscito a raggiungere gli obiettivi».

Tra gli obiettivi, partecipare al tuo sesto Giro d’Italia?
«Essendo una squadra italiana sarà fon­damentale riuscire a ottenere l’invito e in tal caso fare un gran Giro, di sicuro potremo schierare al via una formazione adeguata. Personalmente sarà un obiettivo di rilievo, ma non il clou».

Qual è il tuo obiettivo clou?
«Non sono nella posizione di pormi obiettivi unici e specifici, tipo una gara anziché un’altra. Semmai al 2024 chiedo di potermi esprimere per quello che ritengo essere il mio livello: trovandomi in una realtà un po’ più piccola, mi piacerebbe essere più libero da incarichi di squadra e fare la mia corsa quando se ne presenteranno le condizioni. Non che i risultati collettivi valgano meno di quelli individuali, è semplicemente un’impostazione diversa: servirà qualche gara per entrare in questo mood, mi sento abbastanza competitivo per farcela. Sarà la strada a confermare o smentire: il ciclismo ten­de a emettere verdetti veritieri».

A proposito di Professional ai grandi giri e di gioie personali, era un Pro Team la Qhubeka con cui il 31 agosto 2015 conquistasti la decima tappa di una Vuelta a España poi vinta da Aru: unica tua vittoria in carriera, super volata a Castellon de la Plana (sopra accennavamo al simpatico annuncio social del team Corratec: tra i vari indizi, poco prima del comunicato ufficiale della firma di Sbaragli, han­no postato lo screenshot del tragitto di Google Maps Valencia-Castellon).
«La mia giornata ciclistica più importante: ricordo bene la durezza, andammo a 45 all’ora, e la pioggia che venne giù subito dopo il traguardo. Ricordo due-tre uomini in fuga, noi del gruppo che li riprendiamo nei cinque chilometri finali, Degenkolb che prepara lo sprint per la Giant con Dumoulin in maglia rossa a tirare per lui. Uno sprint di una cinquantina di corridori, per fortuna vinco io. Bellissimo, anche perché in generale fu per noi una corsa splendida: oltre alla vittoria e altri cinque miei piazzamenti in top-10 centrammo il decimo posto in classifica con Mein­tjes».

Così ci ricolleghiamo un attimo al roster della Corratec Selle Italia: ricordi chi ar­ri­vò decimo in quel tuo giorno di gloria?
«Se me lo chiedi così, direi Valerio Conti con la Lampre! Che alla Vuelta peraltro vinse una tappa l’anno successivo. Con Valerio ci conosciamo da tanto tempo e ci siamo sentiti poco dopo la mia firma, è un ottimo corridore e penso che avremo un calendario simile».

Menzionato Conti, spenderei qualche pa­rola per Niccolò Bonifazio: come te una new entry del team, con lui e Conti avete tutti caratteristiche diverse ma sarete un bel trio di esperti…
«Niccolò è un grandissimo talento che ha raccolto meno di quanto avrebbe potuto, comunque ben più vincente di me. Sta venendo su un bel gruppo che può dire la sua, sono davvero curioso di vedere cosa uscirà fuori!».

Quella che ti aspetta è la dodicesima stagione da professionista (di cui tre nel World Tour): di questi undici anni tra Dimension Data, Israel e Alpecin, coronati con un 2023 da podio tricolore ed esperienza azzurra al Mondiale, cosa ti porti dentro?
«Oltre a tanto mal di gambe (ride, ndr) la consapevolezza di non essere forse un campione, ma un buon corridore in grado di essere sempre all’altezza di quanto richiesto. In questo decennio abbondante ho visto il ciclismo evolversi tanto, è completamente diverso da quando passai prof: ti co­stringe a migliorare di continuo le prestazioni e focalizzarti bene su ogni aspetto, dall’allenamento al re­cupero fino all’alimentazione. Occorre muoversi di pari passo: se uno pensa di poter ottenere risultati semplicemente perché cinque anni fa ha fatto determinati numeri su una salita, non va da nessuna parte. Ci sono molti giovani che passano ogni anno e il livello si alza in maniera esponenziale. Ritirarmi ora sarebbe stato un peccato, lo farò quando mi renderò conto di non incidere in nessun modo sulle corse: non è questo il giorno».

E questo ciclismo così evoluto ti piace?
«Diciamo che a piacere sono altre co­se… È l’evoluzione dello sport: non credo che calcio, nuoto o atletica siano gli stessi di quindici anni fa. Parlando del ciclismo, è mutato l’approccio: quan­do passai professionista c’era an­cora chi si allenava senza misuratore di potenza, in altura si andava una volta l’anno e magari i gregari nemmeno ci andavano. Adesso tutto è organizzato nei dettagli, la squadra che si prepara per un grande giro porta tutti in altura e chi tira fa la stessa preparazione dei capitani. È un ciclismo più stressante che ti tiene per più tempo lontano da casa: rispetto a dieci anni fa finisci per disputare meno gare ma passare via da casa cinquanta giorni in più. Ad esempio: nel 2022 facemmo tre settimane in altura, rientrai un weekend per i campionati italiani dopodiché subito partenza per il Tour de France; nemmeno il tempo di riacclimatarsi dalla Grande Boucle, e la settimana dopo via verso il nord Europa per un altro me­setto in viaggio. Non possiamo prevedere se ciò porterà a carriere più brevi, in teoria sì ma non è detto: di sicuro tra corse e allenamento tutto oggi è esasperato».

Dall’oggi facciamo un dolce passo indietro: come nacque la tua passione per la bicicletta?
«In famiglia nessun ciclista, tutti chi più chi meno lo seguivano ma io sono stato il primo a praticarlo. Non c’è stato un particolare fattore scatenante: a 6-7 anni facevo calcio e nuoto in inverno, un’estate però provai la bicicletta e mi accorsi di quanto mi venisse naturale pedalare. Mio nonno mi fece provare una bici della società del pae­se, iniziai con loro da G1 e in un paio d’anni mollai gli altri sport: col ciclismo mi divertivo proprio».

Quella era l’epoca d’oro del ciclismo italiano, che oggi invece è in difficoltà: quali sono i problemi principali secondo te?
«Eh sì, erano i tempi dei Pantani e dei Cipollini e c’era entusiasmo per il ciclismo: nella mia società eravamo quaranta-cinquanta bambini da G1 a G6; adesso ce ne sono dieci-undici e sono contenti di averli, perché parecchie società invece hanno chiuso e contestualmente diventa più difficile organizzare gare. Da una parte c’è un di­scorso di periodi e cicli, tuttavia è innegabile che il ciclismo attrae di meno e ha numeri più bassi: i genitori spesso non si fidano di mettere i figli in bici a causa delle criticità sulla sicurezza delle strade italiane. Anche se in effetti a quell’età gli allenamenti avvengono in pista e le corse in circuiti sicuri, alla bici si preferisce un pallone dentro un campo chiuso. Vero che qualcuno inizia da esordiente, da allievo o addirittura da junior, ma se hai il 50% di giovanissimi in meno rispetto a dieci anni fa, praticamente si dimezzano i potenziali professionisti di domani».

Tu qualcosa di concreto la fai per i piccoli ciclisti: vogliamo ricordare ai nostri lettori cosa contribuisci a organizzare dal 2021 nella tua Castel­fio­ren­tino?
«Nell’ultimo weekend di ottobre si è svolta la terza edizione del Trofeo Fan Club Kristian Sbaragli, a cura della stessa società Castelfiorentino che mi ha cresciuto. E che ha cresciuto pure Bet­tiol, presente insieme a me alla ma­nifestazione. Quasi cento giovanissimi si sono sfidati in mountain bike su un circuito di short track, è andato tutto bene e sono contento di poter dare una mano per una bella giornata di sport. Ce n’è bisogno».

Articolo a cura di Tuttobiciweb.it

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