L’Italia, il Paese dei “processi Findus”

di Adet Toni Novik

I “processi Findus”. Sentii per la prima volta questa espressione da un avvocato milanese durante una causa di lavoro. Visto che per quella vertenza in un’altra sede giudiziaria era stato aperto un processo penale a carico dei proprietari della società convenuta, chiesi al difensore in quale stato si trovasse. La sua risposta mi lasciò di stucco: “E’ un processo Findus”. Quando vide che non capivo, l’avvocato fu più chiaro. Sono quei processi, spiegò, che iniziano con un grande battage pubblicitario sulla stampa, gettano luce su chi le conduce, e poi giacciono in frigorifero fino all’archiviazione, di cui non parlerà nessuno. Al massimo quattro righe in cronaca.

Ero troppo ingenuo per capire. Quaranta anni dopo, Luca Palamara ha squarciato quel velo di candore di cui nella mia mente erano avvolti i Magistrati – da non confondere con la Magistratura come Istituzione alla quale ho dedicato la maggior parte della mia vita – scrivendo: «Le spiego una cosa fondamentale per capire cosa è successo in Italia negli ultimi vent’anni. Un Procuratore della repubblica in gamba, se ha nel suo ufficio un paio di aggiunti e di sostituti svegli, un ufficiale di polizia giudiziaria che fa le indagini sul campo altrettanto bravo e ammanicato con i servizi segreti, e se questi signori hanno rapporti stretti con un paio di giornalisti di testate importanti – e soprattutto con il giudice che deve decidere i processi, frequentando magari l’abitazione… Ecco, se si crea una situazione del genere, quel gruppo e quella procura, mi creda, hanno più potere del Parlamento, del premier e del governo intero. Soprattutto perché fanno parte di un “Sistema” che li ha messi lì e che per questo li lascia fare, oltre ovviamente a difenderli».

Siamo il Paese in cui si aprono continuamente indagini per le causali più varie: alluvioni, disastri ambientali, terremoti, epidemie, valanghe, finanche la mancanza in un certo periodo storico di case in affitto ha dato corpo ad una inchiesta penale, nulla sfugge all’occhio vigile del pubblico ministero di turno. Si indaga su tutto e su tutti. In un pamphlet satirico anni fa per caratterizzare il pubblico ministero ordinario, quello che, quotidianamente e con fatica, compie il proprio dovere, da quello d’assalto avevo scritto: “Se un ignoto lancia un sasso contro un treno e rompe il vetro del finestrino, il pubblico ministero normale cerca di scoprire chi ha lanciato il sasso, mentre quello d’assalto vuole capire perché si è rotto il vetro, e mette sotto la lente inquisitoria tutti gli appalti della società ferroviaria”. Si spiega così come indagini, sapientemente coltivate, altro non siano state che il trampolino di lancio per chi indagava per altri, più importanti (e lucrosi), incarichi.

Sono stato quindi favorevolmente colpito da un recente episodio che, secondo me, segna un forte distacco con le prassi collaudate del passato.

In una intervista al Corriere della sera, il Procuratore della repubblica di Bologna, parlando degli eventi che hanno colpito la Romagna, ha pronunciato frasi chiare sulle coordinate che regolano l’intervento penale: «È difficile individuare dei colpevoli di fronte a un fenomeno così eccezionale…  La responsabilità è individuale, bisogna che sia riconducibile a soggetti definiti…  Non si può avviare un’indagine per ogni evento naturale, non è questo il ruolo del pm, almeno come lo intendo io. I muscoli si mostrano se uno ha una ragionevole intenzione di usarli, mostrarli per mostrarli non ha senso…». E, a proposito della necessità o meno di una perizia:  «Se ritieni che non ci possano essere delle conseguenze giuridiche è inutile sviluppare un accertamento di natura tecnica». In altre parole, non si apre un’inchiesta solo per soddisfare gli appetiti dell’opinione pubblica e il suo bisogno di individuare i colpevoli: «I processi sono una cosa seria, non una ricostruzione filosofica rispetto alla quale chiunque può dire tutto e il contrario di tutto».

Come non essere d’accordo con queste parole di saggezza giuridica? Se pensiamo a quanti danni alle Istituzioni e alle persone attinte hanno cagionato processi, iniziati con grande clamore mediatico e conclusisi dopo anni nel nulla, l’auspicio è che questo esempio venga coltivato e possa attecchire. Il processo penale ha coordinate troppo strette per pretendere di ingabbiare anche i fenomeni naturali. Se l’ambiente, ed in particolare il territorio, è stato devastato da decenni di mala gestio c’è una responsabilità individuale? O non è invece una intera classe politica che dovrebbe andare sul banco degli imputati?

Spetta al pubblico ministero individuare le persone da iscrivere nel registro delle notizie di reato. Non sono un estimatore della Riforma Cartabia nel suo complesso. L’articolato ha alla base solo la ricerca del risparmio dei tempi del processo che è cosa diversa dalla sua funzionalità. Ma c’è una norma che colma un vuoto. Un vuoto in cui sono cadute tante persone per bene, colpite da avvisi di garanzia “come atto dovuto per potersi difendere”. Dimenticando che fin dal 2016 Raffaele Piccirillo, magistrato-direttore generale degli affari penali, per mettere ordine aveva impartito direttive sulla iscrizione nei registri dedicati alle vere notizie di reato, ammonendo come: “Da un lato, un’iscrizione affrettata nel registro delle notizie di reato a carico di noti può comportare immediati pregiudizi, in termini di tranquillità, onorabilità, affidabilità contrattuale delle persone e degli enti interessati”, dall’altro, più in generale, che si deve evitare: “di procedere a iscrizioni strumentali, nei modelli 21 o 44, di fattispecie criminose neppure evocate dai dati disponibili (per esempio, quella di istigazione al suicidio)”, al solo fine di compiere atti di indagine. 

Oggi, l’’articolo 335 del codice di procedura penale impone al pubblico ministero di iscrivere immediatamente, nel registro apposito  ”ogni notizia di reato che gli perviene o che ha acquisito di propria iniziativa, contenente la rappresentazione di un fatto, determinato e non inverosimile, riconducibile in ipotesi a una fattispecie incriminatrice”.  Necessita cioè che ci sia la prova che esiste un reato. C’è una frase ricorrente negli ambienti giudiziari: “Se ti accusano d’aver rubato la Madonnina del Duomo, per prima cosa scappa in Svizzera”. La paternità è incerta: a volte è attribuita a Gaetano Salvemini, altre a Francesco Carnelutti. Con il nuovo articolo 335 può essere archiviata.