Il Barbaro sognante che non ci ha mai lasciato

Marco Pinti e Roberto Maroni sui banchi di Palazzo Estense

di Marco Pinti

22 Novembre, un anno dopo. 

Sono in viaggio su Italo, partenza da Roma, destinazione Milano, quando Andrea Della Bella mi cerca al telefono. Mi domando se mi chiama da amico o da giornalista, nel dubbio rispondo con spiccato accento moscovita, in un codice tutto nostro con cui ci facciamo burla del confine tra i nostri mondi.

A proposito, il mio nome è Marco Pinti, ho 38 anni e sono socio ordinario militante della Lega da 22.

Precisamente dal Marzo 2001, come recita la data sulla tessera. Negli anni sono stato Consigliere provinciale e comunale a Varese, oltre ad aver ricoperto vari incarichi all’interno del Movimento. Insomma, di esperienza ne ho fatta abbastanza per sapere che, quando un giornalista telefona, bisogna stare sempre molto attenti, anche se si tratta di un amico. Ma stavolta Andrea viene in pace. Chiede se me la sento di scrivere un ricordo di Roberto Maroni, una testimonianza umana e politica di chi, come il sottoscritto, ha avuto la fortuna di condividere con Bobo un pezzo di strada. Si intende che accetto, un attimo prima che cada la linea quando il treno si tuffa nell’Appennino tra Firenze e Bologna. Passo una mezzora filata di galleria con i pensieri in agitazione in vista di un compito che, nella miglior tradizione della mia indole, decido di rimandare di ventiquattro ore. Domani, ci penso domani, mi dico. Così, da Bologna a Milano resto incantato al finestrino mentre la Pianura scorre veloce, poetica e industriosa, tra cascinali e fabbriche, prati sterminati e capannoni, traffico pesante in autostrada, geometrie di alberi allineati e campanili lontani. Riannodo in un sorriso il nome che tutto ciò racchiude e racconta, mentre annoto un primo pensiero da riversare nella pagina scritta. Parlare di Bobo è parlare di Lega: la Terra di Mezzo in cui sono ambientate le nostre storie. Non un’ideologia, un pacchetto di opinioni prefabbricate, ma un sentimento. Inafferrabile, enigmatico, impreciso, barbarico e sognante, in grado di radicare un’identità dove possono coesistere esperienze di vita e sensibilità anche molto diverse tra loro.

Più che un partito, una patria: l’unica che abbiamo. 

Senza tutto questo la figura di Maroni rischia di finire incorniciata come un’anomalia, quando invece è il più maturo compimento di un modo di fare politica che nasce dalla concretezza dei territori. Riassumo il concetto sul taccuino con una specie di geroglifico, appena prima che il treno si fermi in Centrale. Scendo, attraverso la stazione e salgo sul regionale Trenord. Per ritrovarmi Bobo seduto accanto mi basta aspettare la prima fermata: Rho Fiera, sede di Expo 2015. Credo sia stata una delle sfide che più lo ha appassionato in tutta la sua vita. Ai tempi conducevo una trasmissione su Radio Padania dove lo intervistavo con cadenza settimanale, una rubrica fissa, ogni martedì alle 18.00. Per quanto la sua agenda fosse una specie di Vietnam, posso contare sulle dita di una mano le volte che ha mancato l’appuntamento. Non di rado era lui a richiamare, se gli capitava di perdere la telefonata della regia. Commentavamo, nel pieno della diretta, di come la corsa contro il tempo per completare i lavori aggiungesse una tensione da thriller all’appuntamento con l’inaugurazione. Era capace di trasformare la pressione in entusiasmo, le difficoltà in un’occasione per superarsi una volta di più, sfidando ogni pessimismo. Di rado l’ho sentito usare espressioni meno che educate, ma per i gufi faceva un’eccezione. Tuttavia, anche quando liquidava con uno stentoreo “Cazzate!” le polemiche che di tanto in tanto lo investivano, nel doppiofondo dei suoi occhiali rossi si leggeva sempre una nota di autoironia che lo rendeva irresistibile anche agli avversari più accaniti. Dopo Rho Fiera, la seconda fermata è Busto Arsizio. Città dove Bobo custodiva uno dei suoi peggiori amici. No, non è un refuso. Mi riferisco proprio a quell’ex Presidente della Provincia di cui non faccio il nome solo per strappargli un sorriso, qualora dovesse capitare a leggere queste righe. Era presente anche lui, sicuramente commosso anche se non lo dava a vedere, il giorno del funerale. Segno di come certe rivalità, a volte, non sono altro che un modo piuttosto acrobatico di volersi bene. I diretti interessati negherebbero, ma io la penso così. Restando a Busto, ne approfitto per tornare a quando ho avuto l’onore di ricoprire l’incarico di commissario cittadino per la bellezza di 77 giorni, nell’inverno del 2017. Fu l’occasione del mio incontro con Manuela Maffioli, l’attuale vicesindaco, che lavorando nello staff di Bobo in Regione ha imparato quel “rito ambrosiano” che oggi mette in pratica nella sua vulcanica attività amministrativa. Appena prima che il treno riparta, ci tengo a salutare dal finestrino anche il decano Enrico Speroni che con Bobo ha condiviso molte stagioni di lotta e di governo. Quanto a me, a furia di prender note sull’agenda, rischio di perdermi la fermata di Gallarate, dove devo scendere, altrimenti finisco a Domodossola. Ad accogliermi idealmente c’è il sindaco, Andrea Cassani. Lo stesso a cui Maroni affidò il coordinamento degli eletti nella sua lista dopo la vittoria alle regionali del 2013. So che conserva una foto che lo ritrae bambino, alle spalle di un Bobo giovane, ma già pienamente affermato, il giorno di un’inaugurazione di una sezione negli anni ‘90. Ne sono passati di simboli sulle schede elettorali da allora, ma l’Alberto da Giussano è ancora al suo posto. Se qualcuno si domanda il perché, la risposta è in fotografie come quella.

La coincidenza arriva puntuale e riparte veloce, avvolta nel buio che nasconde tutto tranne l’Hotel Palace che appare sulla collina come un castello da film della Disney. L’arrivo a Varese è sponsorizzato Esselunga, unità di misura spazio-temporale certificata per raggiungere la porta dello scompartimento. Atterro sulla banchina, poi sottopassaggio e di filata per via Morosini, portici, Feltrinelli, via Sacco. Inizio a percepire una certa ansia da pagina bianca: gli appunti ci sono, ma riordinarli sarà dura. Ho il vago timore di non farcela. “Cazzate!”, mi incoraggio da solo, incassando il collo nelle spalle, mentre compare all’orizzonte il grande scafo rosa di Palazzo Estense. Che sindaco saresti stato, Bobo! Ci avresti fatto impazzire tutti, ma ne sarebbe valsa la pena. So che non ti piacevano i rimpianti, quindi mi fermo subito, ma lasciami almeno ricordare quando ti sedevo accanto in consiglio comunale. E lasciati ringraziare per i consigli che mi mormoravi prima di ogni intervento, sembravi un allenatore di pugilato, ma sotto copertura. Sì, perché tenevi sempre la mano davanti alla bocca e i nostri dialoghi spesso sembravano involontarisketch dei “Legnanesi”. Tu sussurravi qualcosa e io annuivo anche se non avevo capito niente. Mi sentivo un po’ come in quel cartone animato: “Il mignolo col prof”, dove c’è un topo dal cervello portentoso che ha la sventura di trovarsi come aiutante un certo “Pinky”, una cavia un po’imbranata che manda sempre a monte i suoi piani di conquista del mondo.

Però mi ricordo quando mi raccontavi di come gli ammutinati del Bounty colonizzarono le remote isole di Pitcairn o di come reagivano i pellegrini italiani quando ti riconoscevano lungo il cammino di Santiago. Lo avevi percorso sul versante portoghese, sempre pronto a prendere il mare, manco a dirlo. Anche questo ci univa, così come la passione dei libri, da leggere e da scrivere. Ne approfitto per confessare che il tuo romanzo non l’ho ancora letto, voglio tenerlo da parte, pensare che in qualche modo posso venirti ancora a trovare. No, niente nostalgia, tranquillo. Piuttosto, guarda chi sta arrivando dal marciapiede opposto al mio. Lo riconosco dalla camminata, (lo) Stefano Angei. Non faccio in tempo a salutarlo che convergono anche Emanuele Monti e Marco Bordonaro. Proprio oggi, “quater amis, quater malnatt”, neanche ci fossimo dati appuntamento. Coincidenze. Decidiamo per una cena volante, a cui si sottrae il solo Monti che ha pur sempre il dovere di alimentare la leggenda della sua ubiquità. Il tempo di sederci a tavola e lui è già a Brinzio e poi chissà…Comunque, anche in tre la briscola viene bene. Parliamo di tutto come al solito. E parliamo di te, ovviamente. (Lo) Stefano rievoca le parole – irriferibili – con cui te lo presentai sul balcone della sezione. Dipendesse dal Bordo, penso che ti tributerebbe volentieri una salva di artiglieria, ma non lo dice. In effetti organizzativamente potrebbe essere un problema. Sai com’è, i permessi… E forse è meglio così, non abbiamo bisogno di effetti speciali: basta trovarci tra noi e tu ci sei ancora. Un po’ come se il tempo si potesse fermare, penso rientrando in casa dopo averli salutati.

“Domani, scrivo domani”, mi riprometto quando lo spettro della pagina bianca torna a balenarmi davanti agli occhi. Guardo l’orologio della cucina: le nove meno un quarto. Per mettermi in pace la coscienza decido di scorrere almeno qualche tuo filmato su Youtube. La playlist inizia con il discorso a Pontida del 2011, più attuale che mai, attraversa varie interviste, una canzone dei Distretto 51, per finire con un estratto di tre minuti in cui riesci a non rispondere a nessuna delle domande a tagliola dell’intervistatrice. Per un appassionato di politica è come rivedere il dribbling di Roberto Baggio prima del gol contro la Cecoslovacchia ai Mondiali di Italia ’90. Davanti allo schermo ammetto di perdere la cognizione dei minuti e delle ore, così quando torno in cucina ho il sospetto che sia giunto il momento di andare a dormire. Guardo l’orologio: ancora le nove meno un quarto. Si è fermato il tempo. Coincidenze. Accendo il computer, apro la pagina bianca e inizio a scrivere con il sorriso che si allarga a ogni nome, a ogni data, a ogni ricordo. Fino a qui. A un passo dal finale. Potrei chiudere sulle nuvole: immaginarti a riscrivere le competenze dei cieli del paradiso su base federale, oppure pensarti imbarcato sul Pequod a caccia della balena bianca, oppure a vedere il Milan che vince mille a zero contro la Juve, sul palco insieme a Bruce Springsteen, ma non ha senso fermare il tempo per pensarti così lontano da noi.

Perché io ho la netta impressione che tu ci sei ancora.

Ogni volta che ci accorgiamo di un dettaglio.

Ogni volta che pronunciamo la parola autonomia.

Ogni volta che riusciamo a farci perdonare con un mezzo sorriso.

Ogni volta che diciamo la cosa giusta, nel momento giusto, nel posto giusto.

Ogni volta che senza usare le parole, riusciamo a farci capire lo stesso.

Ogni volta che aggrottiamo la fronte, quando ci dicono che siamo di destra.

Ogni volta che alziamo le sopracciglia, quando ci dicono che siamo di sinistra.

Ogni volta che succedono cose strane, come un orologio che si ferma, ma continua a ticchettare.

Maroni pinti lega – MALPENSA24