Un americano a Roma: ipotesi di film politico

meloni salvini americani
Americani a Roma. Alla vigilia delle elezioni...

di Massimo Lodi

Sembrava che gli americani diffidassero soprattutto della Meloni, invece han paura specialmente di Salvini. Perché lei non è filo russa, lui sì. E gli americani sgradiscono una presenza nel futuro governo italiano di chi ha empatizzato con Putin, al punto da stringere una “liaison” col suo partito. L’apprensione fa aggio persino sullo scetticismo del possibile insediarsi a Chigi della leader d’un movimento politico che affonda le radici nel post fascismo. Agli occhi del Dipartimento di Stato pare più credibile l’abiura di lei dalle nequizie mussoliniane che il felpato distacco di lui dallo Zar del Cremlino.

In tal modo alcuni osservatori interpretano la rivelazione di dossier che alludono al finanziamento dei russi di forze politiche occidentali propense a non far loro torto, se non a sostenerne le ragioni d’influenza nell’ambito dei Paesi Nato. Finora non esistono prove di coinvolgimenti italiani, però si lascia intendere che potrebbero emergerne. Un modo per dire: attenzione, in questo finale di partita, a non metter piede falloso nel campo elettorale in cui si sceglie il successore di Draghi, perché incrocerebbe un altro piede pronto al tackle più duro.

Proprio il cordiale rapporto del premier uscente con la donna che ha guidato l’opposizione dal 2018 a oggi, senza tuttavia negare il sostegno alla maggioranza nello snodo cruciale della guerra in Ucraina, risulta premiante all’occhio del grande alleato atlantico. Non che Draghi abbia garantito per la Meloni, ma che non le abbia misconosciuto un’apertura di credito, questo sì. E negli Stati Uniti il “mood” del banchiere diventato statista ha un’importante ricaduta; idem il suo algido distacco verso Salvini.

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Massimo Lodi

Segnali insufficienti a condizionare il voto, dato che ciascuno sceglierà in base a quanto pensa e non obbedendo alle altrui ubbìe, tanto più se provenienti da Paesi stranieri. Però se il risultato elettorale non fosse netto, consegnando al centrodestra una “vittoria mutilata” ovvero senza conquistare la maggioranza parlamentare, l’umore d’oltreoceano potrebbe permeare di sé le opzioni governative. Nasce di qui l’ipotesi, chissà quanto fantasiosa, d’un esecutivo che tagli le ali (Lega e Cinquestelle) e provi a cucire l’inedita veste di un’alleanza fra Meloni, Berlusconi, Calenda e Renzi con Letta seduto sui gradoni della salvifica astensione. 

Roba ardita, tanto che la Meloni stessa ne riconoscerebbe la transeunte ed extrema ratio, collocandosi nel ruolo non di presidente del Consiglio, ma di demiurgo del medesimo, indicandone il nome. Gli Usa – e non solo loro – preferirebbero il Draghi number two. Ma anche una personalità come Guido Crosetto, imprenditore di successo, avvio politico nella Dc, poi deputato di Forza Italia e Pdl, sottosegretario alla Difesa col Cavaliere, cofondatore di FdI e candidato meloniano di bandiera nell’ultima elezione del presidente della Repubblica, non sarebbe sgradita. Anzi. Avercelo, un “americano” così a Roma.

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