Varese, quel 25 luglio di ottant’anni fa

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Mussolini a Varese nel 1925 (dal libro “Alfredo Morbelli, l’emozione del ricordo” di Luisa Negri e Francesco Ogliari, Edizioni Lativa)

di Massimo Lodi

Quando, il 25 luglio di ottant’anni fa, cadde il fascismo, Varese non avvertì speciali sussulti e continuò la solita vita. S’avvistarono scorci di giubilo, qualche agguato a gerarchi locali, la distruzione d’alcuni simboli del regime. Però senza esagerare, con l’indifferenza di fondo verso Mussolini e la sua corte che aveva segnato fin lì l’esperienza locale.

Varese, salvo sporadiche proteste operaie e rari esempi d’avversione tenace alla dittatura, aveva subìto quietamente l’imporsi degli eventi. Più con disincanto che con rassegnazione. Il fascismo era arrivato, e il fascismo se ne sarebbe andato: l’idea che tutto passa, e che il destino è da accettare, prevalse su altre possibili idee. Le sorti belliche non erano state di nefasto impatto: il lavoro non mancava, e anzi in certe fabbriche aumentò per via delle forniture militari. Sicché le rinunzie e i patimenti conosciuti altrove, qui risultarono attenuati, pur se si guardava al dispiegarsi delle azioni sui vari fronti operativi con angosciato scetticismo. La sensazione era che avessimo cominciato un conflitto a perdere, ma che ci sarebbe voluto del tempo (ci sarebbe voluto anche il sacrificio di numerose vite) per rendersene purtroppo conto.

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Massimo Lodi

Imprestati molti suoi cittadini alla patria, Varese pessimista ne aspettava la restituzione. Però il dovere non andava discusso, vi si obbediva e basta. Nel frattempo la quotidianità trascorreva con parvenze spesso normali. I cinema seguitavano a tenere aperto, le manifestazioni sportive a svolgersi, i negozi a offrire discreta quantità e qualità di merci, i caffè a ospitare affollati chiacchiericci. Né gli Alleati avevano ancora cominciato, come poi fecero, a prendere di mira il Nord del Paese con i bombardamenti, e la paura di ritrovarsi sotto una pioggia di bombe appariva lontana, vaga, impalpabile. L’apocalisse della notte in cui l’Aermacchi divenne il bersaglio degli angloamericani non era immaginabile.

La defenestrazione del Duce lasciò freddi i suoi fedeli in loco. Fu pronto l’adeguarsi alla svolta badogliana, l’omaggio al virtuoso tradimento del re, la lode alla perspicacia di chi era stato bravo a capire che bisognava cambiare. Il fascismo subì una liquidazione rapida come l’incantamento causato dal suo incipit. Era stato un mezzo, non un fine, e come tale da usare e buttare. Senza emozioni, senza dubbi, senza malinconie. Con la spregiudicatezza individualista cara alla maggioranza degl’italiani, che non a caso aveva garantito il consenso allo Stato totalitario: convinta che, se non la migliore delle scelte, fosse il minore dei mali.

Fatte le dovute eccezioni, si può dire che la percezione della tragedia epocale mancò, né patì scalfitture la barriera d’indifferenza verso gli errori e gli orrori (pensiamo solo alla persecuzione razziale) che ormai duravano da anni. Ma fu pronto il ribaltone delle simpatie. Il fascismo rovinò senza gloria, e nessuno si rovinò per ammettere d’avergliela in passato riconosciuta. Gli sopravvisse il mussolinismo: un mix di demagogia, grandi astuzie, piccole cialtronerie, sorprendenti intuizioni, tragiche scelte che dura tutt’ora da un capo all’altro della penisola. Pur senza che vi sia il Capo.

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