VISTO&RIVISTO Barbie, icona universale e ambigua. Si meritava forse di più

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di Andrea Minchella

VISTO

BARBIE, di Greta Gerwig (Stati Uniti- Regno Uniti 2023, 114 min.).

Non sparate sulla croce rossa. Anzi, su quella rosa shocking. Il film di Greta Gerwig è un tributo incondizionato, troppo, all’icona pop più controversa e mitologica del secolo scorso. La Barbie della Mattel è stata, dalla sua nascita nel 1959, contemporaneamente un giocattolo per le bambine americane, prima, e di tutto il mondo, poi, e il simbolo plastico del capitalismo americano pronto a conquistare il resto del pianeta. La Barbie ha rappresentato l’emancipazione sognata e desiderata della donna, ma mai realizzata. La Barbie racchiude in sé tutti i principi base di una società perfetta che desidera e acquista, che si circonda di elettrodomestici, automobili, case e vestiti, che possano trasformare l’esistenza in una spettacolare e magica esperienza. La Mattel, proprietaria della bambola e di tutti i componenti della sua “famiglia”, ha fondato il suo impero sulla Barbie, bionda, bella e perfetta, e sulla decina di diversi modelli che negli anni hanno arricchito il suo fantastico e sconfinato mondo.

Generazioni intere di bambine hanno giocato con un pericoloso e arretrato modo di vedere la donna inserita in un mondo perfetto, senza discriminazioni, dove tutto quello che si desidera può essere acquistato e dove tutto quello che si può comprare diventa un motore inarrestabile per la felicità e l’emancipazione. Tutto falso. Molte bambine, quando sono cresciute, si sono accorte che Barbie non era un loro alter ego, ma un prodotto commerciale distribuito da una multinazionale americana in un mondo in cui l’uomo (e non Ken) decide e detta le regole del gioco. E poco importa se negli anni la Mattel ha cercato di riempire le lacune della ricerca ossessiva della perfezione con modelli, come Barbie incinta (subito bandita), Barbie di colore, quella in sedia a rotelle fino a quella più recente affetta dalla sindrome di Down, che potessero stemperare l’eccessiva plasticità di un mondo didascalico dove esiste solo il bene, il bello, ma soprattutto l’omogeneo.

E così, dopo anni di tentativi andati a vuoto, la Warner Bros decide di realizzare un film in “live action” sul giocattolo più venduto al mondo. Dopo diversi nomi fatti e mai confermati, Greta Gerwig, insieme al compagno Noah Baumbach, scrive la sceneggiatura del film. La Warner decide di affidarle la regia e lei si ritaglia anche un ruolo di attrice, quello della Barbie “stramba”, cioè di quella Barbie che veniva “seviziata” dalle bambine proprietarie che le tagliavano i capelli, le dipingevano la faccia e la maltrattavano come reazione naturale e istintiva, a volte, alla bellezza perfetta e artificiale della Barbie “stereotipo”. Scelta Margot Robbie come protagonista, il film è diventato realtà nel giro di poco tempo. La Robbie è stata fin da subito convintissima del progetto tanto da spingerla a investire come produttrice del film. A chiudere il cerchio c’è Ryan Gosling che interpreta l’amico innamorato di Barbie, Ken.

Dunque “Barbie” viene realizzato con un budget di quasi 150 milioni di dollari ed esce nell’estate calda di “Mission Impossible” e di “Oppenheimer” (esilaranti i “meme” sulla rete che fondono insieme “Barbie” ed “Oppenheimer” in un possibile film di Nolan in cui le due icone si incontrano con conseguenze esplosive). Il risultato è però deludente. Non che le intenzioni fossero migliori. Scrivere una sceneggiatura su un oggetto così iconico ed evocativo senza cadere nella retorica banale e noiosa di genere era praticamente una missione impossibile. Uno dei problemi fondamentali della pellicola è l’incertezza riguardo i destinatari del film. Il registro della sceneggiatura racchiude troppi stili, sfilacciando la storia già piatta e scontata, e trasforma il racconto in uno stucchevole spot sulla barbie e su come andrebbe usata per giocarci nel migliore dei modi.

Le bambine accorse in sala non si riconoscono né con la Barbie né, probabilmente, con le protagoniste in carne d’ossa che diventano comparse di un mondo che non esiste. Il film di Greta Gerwig diventa un concentrato di stereotipi che si auto giustificano perché inseriti in un mondo fantastico in cui la Barbie vive e fa sognare milioni di bambine. Ma questo corto circuito non viene elaborato e rimane un freno molto evidente durante tutte le due ore della pellicola. Non so se si sarebbe potuto fare meglio ma certamente la confusione di stili, di linguaggi e di destinatari a cui ci si rivolge genera un prodotto interessante sulla carta ma devastante se trasferito sulla pellicola. Un progetto commerciale che diventa etica del commercio in una società fatta prevalentemente di acquirenti e di beni da acquistare. Senza però dare alcun consiglio o valida idea su come ci si può difendere davvero dal patriarcato esasperato e tossico che permea la società moderna, pur giocando e viaggiando con la fantasia. Un’altra occasione persa da parte di Hollywood.

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RIVISTO

BEAVIS & BUTT-HEAD ALLA CONQUISTA DELL’AMERICA, di Mike Judge (Beavis and Butt-Head do America, Stati Uniti 1996, 81 min.).

L’America “grunge”, misera e abbandonata dei giovani adolescenti della provincia raccontata in maniera geniale e dissacrante da Mike Judge.

MTV dà voce ad una generazione muta che avrebbe tanto da dire se fosse ascoltata. La serie, in onda dal 1993, diventa un film in cui i due protagonisti viaggiano in una terra desolata e piena di contraddizioni che dovrebbe essere la loro casa. Sarcastico, cinico e demenziale il film su Beavis e Butt-Head è un capolavoro ancora oggi attuale e fortemente pedagogico. Da rivedere.

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