VISTO&RIVISTO Il diavolo esiste e realizza film brutti

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di Andrea Minchella

VISTO

L’ESORCISTA DEL PAPA, di Julius Avery (The Pope’s Exorcist, Stati Uniti 2023, 103 min.).

La vera domanda è: a chi è rivolto un film come questo? Perché se qualcuno lo ha realizzato significa che un possibile pubblico, nel mondo, è pronto ad assistere ad un disastro come è “L’Esorcista del papa”. Ma questo non giustifica, comunque, produzioni scadenti come queste che intasano un mercato già fragile come è quello del cinema di oggi.

Il film è liberamente ispirato alla figura realmente esistita di Gabriele Amorth, un presbitero che, dal 1986 al 2016, è stato un esorcista nella diocesi di Roma, accumulando migliaia di riti in cui, a detta della Chiesa, i demoni impossessati di ignare vittime sono stati cacciati grazie alla tenacia ed alla capacità di Amorth. Lo stesso William Friedkin, che nel 1973 aveva realizzato il dissacrante “L’Esorcista”, dedicò un intero documentario nel 2017, “The Devil and Father Amorth”, alla controversa figura di Gabriele Amorth.

Questo film diretto da Julius Avery prende spunto dai numerosi libri che Amorth scrisse durante la sua lunghissima carriera di esorcista. Il film, però, si stacca completamente dalla figura del prete per direzionarsi verso una disastrosa scelta di muoversi pericolosamente tra l’”horror”, il poliziesco e il “thriller” alla Dan Brown. Ma l’incapacità del regista di rimanere su una sola linea narrativa rende il racconto stucchevole, confuso, banale e molto noioso. La storia si perde dietro una scelta stilistica che fatica a rimanere la stessa per almeno 5 minuti di seguito. Il sonoro e l’interpretazione di Russell Crowe sono, forse, le uniche due cose che si possono salvare. Ma non bastano. Perché sia il sonoro sia l’appesantito attore australiano sembrano essere più adatti ad un poliziesco che ad un racconto su uno dei tanti fenomeni di esorcismo che si sono susseguiti nella storia dell’umanità. Se si vuole raccontare una vicenda così delicata come è quella dell’esorcismo nella società moderna, non si può usare un registro che si muove tra il grottesco e il “fantasy”. Un tema delicato esige un lavoro minuzioso e sincero.

L’intento dovrebbe essere quello di raccontare una realtà che fa parte di un universo molto esteso, fatto di eventi inspiegabili (per la Chiesa e per i suoi adepti) in cui persone normali si ritrovano a vivere esperienze ai limiti dell’umano. Ma se l’intento è quello di spettacolarizzare, tra l’altro in maniera abbastanza superficiale, il risultato non può che essere pessimo e nocivo per l’intero mondo del cinema che dopo il Covid cerca in ogni modo di rialzarsi. Produzioni come queste dovrebbero essere bloccate sul nascere perché non fanno altro che abbassare vertiginosamente il livello di qualità e rischiano di contaminare le esigenze del pubblico che spesso deve accontentarsi di un’offerta mediocre e autoreferenziale.

La figura molto controversa di Amorth, che nell’ultima parte della sua vita non ha nascosto la sua ferocia contro l’omosessualità e nei confronti di molte figure della politica e della televisione italiana, a suo dire tutte espressioni più o meno dirette di Satana, sicuramente avrebbe potuto dare vita ad una riflessione e ad una narrazione molto più interessante e utile di questo pessimo lavoro. Certamente le forze necessarie per realizzare un racconto più strutturato e sincero sarebbero state maggiori, ma il risultato sarebbe stato sicuramente più convincente e meno banale. Peccato, un’altra occasione sprecata dalla settima arte.

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RIVISTO

IL NOME DELLA ROSA, di Jean-Jacques Annaud (The name of the Rose, Italia- Germania Ovest- Francia 1986, 126 min.).

Si poteva fare meglio del capolavoro di Umberto Eco? Il bravissimo Annaud ci è riuscito, regalandoci uno dei film più belli ed emozionanti di sempre. Sean Connery fa il resto. E il risultato è un racconto che completa il prezioso lavoro fatto da Eco con il libro. Ciò che le parole non possono fare, viene magistralmente messo in scena da un regista che cura ogni dettaglio con una maniacale e didascalica capacità descrittiva.

L’abbazia e il lavoro geniale di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo danno vita a delle sequenze uniche che per sempre rimarranno impresse nella nostra mente. Un capolavoro che non dimostra i quasi quarant’anni che invece ha.

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