A che punto è la notte

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Il sottosegretario Andrea Delmastro

di Adet Toni Novik*

È sempre la stessa storia, più o meno: quando una norma non mi garba perché colpisce i miei va cambiata. E giù a manetta professori (che hanno visto le aule dei tribunali sono in tv) e i soliti noti, quelli garantisti con gli amici e forcaioli con i nemici. In sintesi, i fatti: il sottosegretario Delmastro, avvocato e penalista, aveva avuto accesso in relazione al proprio ruolo alle conversazioni in carcere tra l’anarchico Cospito e malavitosi della ‘ndrangheta e camorra e le aveva comunicate al coinquilino Donzelli, parlamentare con cui condivide l’appartamento romano, che le aveva poi lette in aula attaccando l’opposizione.

A seguito della denuncia di alcuni parlamentari, erano iniziati gli approfondimenti della Procura di Roma per fare chiarezza sull’accaduto e verificare che fossero state rispettate le norme che regolano la divulgazione dei documenti letti alla Camera da Donzelli.

La Procura, terminate le indagini, ha presentato al gip una richiesta di archiviazione, riconoscendo “l’esistenza oggettiva della violazione del segreto amministrativo”, ma fondando la non punibilità “sull’assenza dell’elemento soggettivo del reato, determinata da errore su legge extra-penale”, ovvero che il divulgante fosse consapevole dell’esistenza del segreto.”. Il gip, come consente il codice, non ha ritenuto di poter accogliere la richiesta di archiviazione e ha imposto al pubblico ministero di formulare l’imputazione. La convinzione del gip è che Delmastro fosse consapevole del fatto che le notizie da lui rese pubbliche in Parlamento fossero segrete. Evidentemente, essendo necessario soltanto verificare la consapevolezza del sottosegretario di divulgare un atto segreto, accertare cioè un fatto solo intellettivo, il gip ha escluso che fossero necessarie ulteriori indagini. Da qui l’ennesimo, inaspettato nei toni e nelle forme, attacco alla magistratura. In una nota non firmata Palazzo Chigi attacca: “I giudici fanno politica?”. I presidenti dei senatori e dei deputati di Fdi, Lucio Malan e Tommaso Foti, si chiedono se i casi Santanchè e Delmastro non siano “l’avviso della campagna elettorale del prossimo anno“. Tajani afferma: “A qualcuno la riforma della giustizia dà fastidio” (fonte, Tgcom24). Vediamo un po’ come stanno le cose.

È singolare, come nota Enrico Costa, che si levino critiche contro un provvedimento, l’imputazione coatta, che, in caso di contrasto tra giudice e p.m., prevede correttamente la prevalenza del primo. E questo da chi appoggia la separazione delle carriere, per evitare appiattimento del giudice sul p.m. «Protestare se un giudice smentisce un pm contraddice i principi del giusto processo che Nordio richiama ogni giorno».

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Adet Toni Novik

«Secondo le fonti di via Arenula, l’imputazione coatta di Delmastro sarebbe paradossale: “L’accusa non farà altro che insistere nella richiesta di proscioglimento in coerenza con la richiesta di archiviazione”. E aggiungono che “laddove, al contrario, chiederà una condanna non farà altro che contraddire sé stesso”. Nel processo accusatorio, continuano, “il Pubblico ministero, che non è né deve essere soggetto al potere esecutivo ed è assolutamente indipendente, è il monopolista dell’azione penale e quindi razionalmente non può essere smentito da un giudice sulla base di elementi cui l’accusatore stesso non crede”. Il Ministero precisa come la maggioranza dei casi di imputazione coatta finisce con una sentenza di assoluzione “dopo processi lunghi e dolorosi quanto inutili, con grande spreco di risorse umane ed economiche anche per le necessarie attività difensive”. Per questo, sottolineano ancora una volta, “è necessaria una riforma radicale che attui pienamente il sistema accusatorio”.».

Intendiamoci bene. Il potere di archiviazione delle denunce è un’arma. Consente di chiudere i processi a carico degli amici e dei potenti. In mani spregiudicate significa porre nel nulla il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. La memoria ci aiuta a capire.

L’originario articolo 74 del codice di procedura penale del 1930, così detto codice Rocco, consentiva al pubblico ministero di archiviare direttamente le notizie di reato infondate (Quando il pubblico ministero ritiene che non si debba procedere per la manifesta infondatezza del rapporto, del referto, della denuncia, della querela o dell’istanza, e non ha già fatto richiesta per l’istruzione formale o per il decreto di citazione a giudizio, ordina la trasmissione degli atti all’archivio. Il pretore provvede nello stesso modo).

All’epoca, il pubblico ministero era il rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria preposto alla amministrazione della giustizia, e poiché tali funzioni erano considerate di natura essenzialmente amministrativa, per tutto il periodo anteriore alla Costituzione del 1948, il pubblico ministero venne organizzato in modo burocratico-gerarchico, avendo come vertice il Ministro della giustizia, che aveva il potere di dirigere, di coordinare e di controllare l’operato degli ufficiali del pubblico ministero. Il controllo del Ministro arrivava a poter dare, per via gerarchica, istruzioni vincolanti all’organo del pubblico ministero presso il giudice competente circa l’esercizio o il non esercizio dell’azione penale, senza che il giudice potesse a sua volta svolgere alcun controllo sulla scelta di non esercitare l’azione penale.

Con la caduta del fascismo la situazione mutò radicalmente. L’articolo 6 del Decreto Legislativo Luogotenenziale del 14 settembre 1944 n. 288 stabilì che: «Il pubblico ministero, qualora reputi che per il fatto non si debba promuovere l’azione penale, richiede il giudice istruttore di pronunciare decreto. Il giudice istruttore, se non ritiene di accogliere la richiesta, dispone con ordinanza l’istruttoria formale».

Era stato introdotto il controllo del giudice sull’archiviazione. Un giudice però che si sostituiva al pubblico ministero nella ricerca della prova.

Il codice del 1988 mantenne il controllo del giudice sull’archiviazione, ma, avendo sostituito il giudice istruttore con il gip, volle escludere la figura del giudice-inquisitore e creò un giudice “di garanzia e di controllo sull’attività di indagine svolta dal pubblico ministero e sui tempi di essa.”. Il controllo del gip nei confronti della richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero è stata strutturata così in due modi: o indicando al pubblico ministero ulteriori indagini o imponendo l’imputazione. Nel primo caso, il pubblico ministero se le nuove prove non sono significative è libero di reiterare la propria richiesta; nel secondo caso, ha l’obbligo di portare il processo davanti al giudice per l’udienza preliminare (diverso come persona fisica da quello che ha imposto l’imputazione coatta).

C’è del vero in quello che dice la fonte di via Arenula sopra riportata. La forza della prevenzione funziona anche dal lato del pubblico ministero. Spesso le indagini sono eseguite di malavoglia e il pubblico ministero che deve sostenere una accusa in cui non crede non si impegna più che tanto. Ma non è una regola e ci sono anche lodevoli eccezioni (di cui sono testimone). Comunque sia, è questione di professionalità dei pm e non del Sistema processuale. Un controllo del giudice sul potere di archiviazione del pubblico ministero in un ordinamento democratico è indispensabile, sia che il processo sia di stampo accusatorio, sia di stampo inquisitorio. Altrimenti si ritorna ad un passato non piacevole: un pubblico ministero dotato di un potere assoluto di cui non rende conto a nessuno. Quindi, a mio avviso, se proprio la politica vuole ridare autonomia ai propri componenti rispetto al potere giurisdizionale, prenda la decisione di sottoporsi al controllo dell’opinione pubblica e reintroduca l’autorizzazione a procedere per i componenti del Parlamento. Tutto sarà più chiaro e almeno usciremo da questo continuo Buio Notte.

* già magistrato della Corte di cassazione

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