Giavini: «Il virus “ferma” l’insalata e ciapi in Veroncora, ma non la storia di Busto»

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Insalate e ciapi: un anno fa

BUSTO ARSIZIO – La Pasquetta senza insalata e ciapi? «Un insulto qui a Busto», non esita a esclamare lo storico Luigi Giavini. Il quale però ha una via alternativa per far sì che la memoria, ma soprattutto la storia non vengano dimenticate anche in tempi di quarantena e di questo virus, che ha ben poco rispetto di quelle che sono le tradizioni. Così antiche che affondano le proprie radici in tempi lontanissimi. Tradizioni che vengono sospese come l’appuntamento di Pasquetta, ma che si possono rivivere nelle parole di Giavini, il quale racconta della Madonna in Veroncora, di San Grato, protettore della campagna, dell’insalatina, primizia di stagione e dell’uovo, simbolo di fecondità.

Lezione di Pasquetta

Può un bustocco non andare alla Veroncora Il giorno di Pasquetta? Sarebbe un insulto alle nostre radici – racconta Giavini –  E allora seguitemi, mentre vi racconto memorie e memorie. La siccità era ricorrente e tremenda per il Borgo. Così descrive il cronista gli effetti di tale calamità nel 1630, l’anno della peste.  “Un tale Busto luigi giaviniet un tale brussore d’aria et un caldo cosí attroce che il raccolto del miglio (eh.. ul pan meén!) fu pochissimo anci sterilissimo. Vi fu gran carestia di herbaggio per li bestiami. Morivano le piante di moroni per lo troppo sutto”. Una delle leggende che ci parlano di streghe è legata alla siccità. In una di queste calamità i bustocchi, cosí dice la leggenda, andarono in processione alla chiesetta della Madonna in Veroncora per impetrare da San Grato il dono della pioggia. La statua del Santo era collocata sopra il campaniletto, ed è lì ancora. Siccome le preghiere evidentemente furono troppo intense venne una grandinata che distrusse tutto. I bustocchi giudicarono colpevole seduta stante il Santo, gli legarono un cappio al collo e lo tirarono giù. Quando apparve chiaro che San Grato non c’entrava e che la tempesta era stata causata da una lite tra le streghe di Verghera e quelle della Ponzella, il Santo fu ricollocato al suo posto con tutti gli onori, però cont’un gibúl in có.

Salite e… controllate.

Leggenda che nasce però da tanti tasselli e per certi versi racconta anche il passaggio dal paganesimo al cristianesimo, divinità pagane diventate streghe, un quadrivio sacro, l’insalata e ciapi con l’antichissimo significato dell’uovo, la primizia di primavera, il posto nei prati destinato sempre alle stesse antiche famiglie büstocche. Tutto era un rito che culminava nelle spericolate esibizioni di cavalieri. Insomma, si pregava, in allegria. Ecco, siamo arrivati alla Veroncora. Un patèri alla Madonna e al San Grá. E ‘ndèm a cá.

Il lato positivo della quarantena

«Non sono tanti – dice Giavini, dopo aver donato un’insalata e ciapi virtuale – Ma da questo stare a lungo chiusi in casa abbiamo forse riscoperto qualcosa di bello. Che c’è sempre stato, ma che la frenesia del tempo non ci permetteva di guardare con la giusta attenzione che invece merita: il senso della nostra storia. Ho avuto modo in queste settimane di sentire via telefono o tramite messaggi molti bustocchi che mi hanno raccontato del loro piacere nell’aver riscoperto la storia di Busto e della Lombardia. Concittadini che hanno preso in mano, sfogliato e letto libri che custodivano nei loro scaffali e che parlano della nostra città e delle nostre tradizioni. Pagine che spero abbiano donato a chi le ha lette il vero valore della cultura».

Ma l’occhio attento di Luigi Giavini oltre che alla storia e alla tradizione guarda anche alla cultura del lavoro che ha sempre contraddistinto Busto e i bustocchi. Un lavoro che il coronavirus ha fermato. Anche qui lo storico bustocco invita ad avere un atteggiamento ottimistico. O meglio suggerisce di guardare ancora una volta alla storia, perché conoscere ciò che è accaduto ieri può aiutare ad affrontare il domani. E il termine che usa Giavini è al tempo stesso antico e attuale: «Innovazione – dice – perché gli imprenditori bustocchi sono sempre stati innovativi. E riscoprire questa capacità potrà aiutare la ripresa di tutta la nostra città. Anche sotto il profilo produttivo. Ci sono già alcuni esempi, di imprenditori, piccoli, che conducono aziende a dimensione famigliare e che si sono trovati a produrre mascherine. Investendo e innovando in un momento davvero di grande emergenza come è stato l’inizio della diffusione della pandemia».

Come l’Asiatica. Passerà anche il coronavirus

«Anche questa epidemia passerà» conclude Luigi Giavini, che in gioventù ha vissuto il tempo dell’Asiatica e racconta un aneddoto di quei giorni lontani, simili a questi seppur diversi. «Anche quella era un’epidemia. E anche l’Asiatica è stata accolta come un’influenza un po’ più forte di quelle che si prendevano di solito. Io stesso l’ho avuta. Anzi, ricordo di aver sostenuto un esame all’università con un professor anch’esso “colpito” dall’Asiatica. Insomma, l’avevamo in tanti, ma non c’era la sensibilità di oggi. Non ricordo infatti una quarantena come quella che stiamo attraversando». E dalla quale c’è qualcosa da imparare. E nell’attesa che questa clausura finisca, Giavini ci congeda con il suo tradizionale saluto che anche un ottimo augurio: «Assa», ovvero “Ci vediamo”.

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