Maniglio Botti, la nobiltà del giornalismo

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Maniglio Botti, giornalista varesino scomparso a maggio due anni fa

Mi chiamo Maniglio e ti racconto una storia” è il libro di oltre cinquecento pagine che ospita gl’interventi su Facebook di Maniglio Botti, giornalista varesino scomparso due anni fa. Verrà presentato sabato, 1 ottobre, alle 18 nella sala Varesecorsi di piazza della Motta. L’iniziativa, voluta dai figli Carlo e Lucia, è stata curata da Fiorenzo Croci e Michele Mancino.

di Massimo Lodi

Le due parole che Maniglio ed io, compagni d’avventura giornalistica per decenni, usavamo con frequenza regolare erano fratello e roba. Fratello lui per me, io per lui. Le nostre chiacchiere s’iniziavano e chiudevano sempre con fratello. Ciao fratello, addio fratello. Idem gli scambi via mail e whatsapp quando la tecnologia, detestata da entrambi, soverchiò l’usata abitudinarietà. Roba erano invece gli articoli. Ci chiedevamo, nell’incipit della giornata lavorativa: che roba passa la cucina? Intendevamo quali argomenti, quali proposte redazionali, quali contributi dei collaboratori. Ci salutavamo, a notte ormai fonda: roba da matti anche oggi, ma dai che è andata. Dai, sì. Andò al tempo della Prealpina, poi nella stagione di RMFonline.

Tra di noi mai un broncio, mai uno sgarbo, figuriamoci se un dispetto. Ci soccorreva una comune natività, per così dire, sociale. Eravamo stati compagni al liceo classico. E attivisti nell’associazione giovanile Amedeo di Savoia Duca d’Aosta. E tifosi festanti degli scudetti juventini, purtroppo non della Coppa che conta, salvo che nel magico ’96 di Lippi e Vialli. Uniti perfino dall’idea politica: il liberalismo risorgimentale declinato nella contemporaneità. Sapevamo d’essere minoranza da cabina telefonica, ma che bello giocare al modo di Davide contro Golia.

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Massimo Lodi

Per deliberazione del fato, gli opposti dei nostri caratteri s’incrociarono. Lui calmo, comprensivo, sdrammatizzante. Io irrequieto, umorale, tranchant. Ne venne fuori un mix di temperato giornalismo. Lavoravamo bene insieme, ci s’intendeva con lo sguardo, le intuizioni precedevano i ragionamenti. Maniglio è stato un cronista caparbio: curioso del dettaglio periferico, rivelatore d’inimmaginabili sorprese; caritatevole verso le debolezze umane, da respingere come materia narrativa; umile nell’evitare boriose manifestazioni d’una cultura che pur possedeva d’alto profilo.

Conosceva l’arte della leggerezza, aveva il dono della semplicità, voleva bene al prossimo prima che a sé stesso. Doti indispensabili al testimone d’un giornalismo popolare di qualità. Ecco il suo lascito prezioso: saper raccontare quel che succede senza protagonismi di scrittura, e invece partecipando delle vite altrui. Nel bene qualche volta, nel male qualche altra. Di frequente, infatti, è il negativo dell’esistenza a finire sui giornali, e senza uno spirito positivo -detto pìetas, non a caso- si corre il rischio d’una distorta spiegazione dei fatti. Che hanno una loro oggettività, e però esigono il costante individualismo interpretativo.

I giornali médiano tra quanto accade e quanti leggono: il talento del mediatore fa la differenza fra buona e cattiva informazione. Insegnamento sempre attuale, e specialmente in quest’epopea di marchio (e derive) social. Maniglio Botti figura nell’ideale galleria dei maestri d’un tale insegnamento, che han messo la vocazione al servizio del mestiere. Nobilitandolo. Cosa dire di più affettuoso/realistico verso il mio vecchio, caro, indimenticabile amico monarchico?

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