Massacro via Menotti, il presidente del Tribunale: «Epilogo inaspettato»

VARESE – Il carcere come misura di prevenzione per evitare che casi di maltrattamenti e stalking si trasformino in tragedie. Il tema è tornato drammaticamente in primo piano dopo il massacro di via Ciro Menotti a Varese, luogo in cui lunedì scorso il 40enne Marco Manfrinati ha accoltellato a morte l’ex suocero Fabio Limido e ha sfregiato al volto l’ex moglie Lavinia, lasciandola in fin di vita. Perché quell’uomo che aveva già un divieto di avvicinamento alla ex, vittima di atti persecutori, e che era stato denunciato per stalking nei confronti della donna, dopo una precedente denuncia per maltrattamenti, non si trovava in carcere?

Come si muove la giustizia

Il punto è al centro delle domande che l’opinione pubblica rilancia da giorni. Una risposta arriva anche dal presidente del Tribunale di Varese, Cesare Tacconi, ed è utile per comprendere i movimenti della giustizia sulla base delle normative di riferimento. Sopratutto perché talvolta certe decisioni non vengono comprese da chi non frequenta le aule di tribunale, e influiscono sulla percezione che le stesse persone hanno della giustizia.

«Procedere per gradi»

«In rapporto ai casi di maltrattamenti e di stalking non esiste alcun automatismo tra gli atti di violenza, fisica o verbale, e il ricorso alla custodia cautelare in carcere – spiega Tacconi – Il nostro ordinamento prevede un utilizzo graduale delle misure cautelari, e l’applicazione della misura massima solo quando non ci sono altre possibilità. Quando le misure più lievi si sono rivelate insufficienti».

La mamma di Lavinia

L’avvocato Marta Criscuolo, mamma di Lavinia, dopo essere stata ascoltata in Procura martedì sui fatti che le hanno stravolto la vita, si è sfogata con i cronisti all’esterno del tribunale, raccontando che più volte aveva segnalato la pericolosità di Manfrinati, e affermando che il divieto di avvicinamento alle persone offese nella vicenda dello stalking (Lavinia e gli ex suoceri) e ai luoghi da loro frequentati «non è servito a niente».

La richiesta di arresto

Per quella vicenda la Procura di Varese aveva chiesto l’arresto del 40enne, ma il gip, valutato il caso, ha poi disposto la misura più lieve, che non ha impedito a Manfrinati di scatenare la sua furia lunedì scorso, aggredendo Lavinia e Fabio Limido fuori dagli uffici dell’azienda di famiglia. «Non spetta a me entrare nel merito delle valutazioni fatte dal giudice, che decide in base agli elementi che ha a disposizione – aggiunge Tacconi – Nel caso specifico, dopo l’applicazione della misura non risulta che siano stati segnalati episodi sintomatici. Poi purtroppo è arrivato questo epilogo».

Il braccialetto elettronico

Tra i fattori di cui un giudice non può tener conto durante le indagini per stabilire a quale misura cautelare fare ricorso, c’è l’imprevedibilità, sottolinea Tacconi. A questo proposito, un altro tema tornato in evidenza dopo il massacro che ha portato in carcere Manfrinati con le accuse di omicidio e tentato omicidio (aggravato dalla premeditazione), riguarda l’utilizzo del braccialetto elettronico per intervenire tempestivamente in caso di pericolo. «Il presidio è indicato dal Codice – commenta Tacconi – ma c’è il problema della disponibilità materiale dei rilevatori, emerso su larga scala fin dall’introduzione dello strumento».

Problema sociale

Impattante, se si parla di maltrattamenti e atti persecutori, è il problema sociale connesso a questi reati, che guardando al numero dei processi che si svolgono in tribunale a Varese sono davvero molto diffusi. C’è però un ulteriore aspetto, che si lega al Codice Rosso: nome con cui è conosciuta la legge del 2019 che ha rafforzato le tutele per le vittime delle violenze. «Il Codice Rosso ha migliorato la gestione dei casi, con celerità e inasprimento delle pene – è la posizione del presidente Tacconi – Al collegio abbiamo tanti processi relativi a maltrattamenti e atti persecutori, ma anche perché questi reati hanno ora una priorità a livello procedurale».

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