Dal porto delle nebbie a Paperopoli

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di Adet Toni Novik

Ci fu un tempo, parliamo degli anni ’60 – 70, in cui gli uffici giudiziari di Roma, in particolare la Procura della Repubblica, erano definiti il porto delle nebbie. Un mondo in cui tutto era ombrato, e le inchieste che riguardavano i potentati economici e politici erano regolarmente affossate o soffocate. Non per niente si diceva che la Procura di Roma valesse due ministeri. Roma centrale del Palazzo, Roma capitale degli insabbiamenti, si è scritto. Poi arrivò la stagione degli arresti eccellenti di magistrati e di quella triste nomea rimane solo il ricordo storico.

Al confronto di Roma, la Procura di Milano brillava per efficienza e per rigore morale. Se Roma era la capitale politica, Milano si fregiava di essere la capitale morale. Sotto il Duomo si svilupparono inchieste e processi importanti: per dirne qualcuna, Calvi e l’Ambrosiano, Duomo Connection, Sindona e giù passando per la P2, scandalo dei petroli e Tangentopoli. A Milano certe cose non succedono, si disse. E per il vero, invertendo una annosa consuetudine per cui Milano era sede disagiata di prima nomina, in attesa di essere trasferiti in un ufficio giudiziario del Sud – tale era l’estrazione regionale dei vincitori di concorso – ci fu la corsa tra i magistrati a essere trasferiti nel capoluogo lombardo. Con una battuta, che rispecchia una certa realtà, dissi che ogni magistrato che si trasferiva a Milano, anche se nel luogo in cui aveva fino ad allora esercitato non brillava per scienza giuridica, diventava immediatamente bravo. Come dire, in una sede così grande ognuno poteva costruirsi la sua immagine riflettendo la luce che la sede gli dava. Tra l’apparire e l’essere, prevaleva l’apparire. Non è il massimo, ma tant’è.

E poi… la caduta degli Dei, riflessa nella frase, riportata da molte testate giornalistiche, “Davigo, leggendo un pezzo di cronaca giudiziaria si lasciò sfuggire: “Sembra la Procura di Paperopoli“, riferendosi a Milano” (da Affari Italiani.it dell’11/6/2021).

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Adet Toni Novik

Faccio una premessa. Ricordo che in un articolo sul Corriere della Sera di qualche anno fa, Ennio Caretto a proposito del processo Rosenberg scrisse: “Il New York Times ha ricordato che nel 2001 William Rogers, il sostituto procuratore ai tempi del processo, celebrato nel 1951, spiegò che Ethel venne incriminata per indurre il marito a confessare e a svelare i nomi di altre spie sovietiche: “Speravamo che di fronte alla minaccia di una condanna a morte della donna, Julius crollasse. Ma i coniugi non collaborarono, continuarono a proclamarsi innocenti”. Secondo il quotidiano, la politica impedì alla Procura di tirarsi indietro. (…) Ha rilevato lo storico Bruce Craig: “E’ un’amara lezione per la nostra democrazia. La Procura giudicò i Rosenberg colpevoli prima ancora del processo e non badò a mezzi per farli condannare. Auguriamoci che non si ripeta più”.

Buon per noi, pensai, che il pubblico ministero italiano non è asservito alla politica, ma gode delle garanzie di indipendenza del giudice. Quello che è successo negli Stati Uniti da noi non può succedere perché il pubblico ministero è organo di giustizia e non ha nessun interesse ad ottenere a tutti i costi la condanna dell’imputato per essere rieletto o ambire ad altri più prestigiosi incarichi. Il pubblico ministero italiano ricerca anche le prove a favore degli imputati e se al termine delle indagini o del processo ritiene che l’imputato sia innocente non ha nessuna remora a chiederne l’assoluzione.

Peccavo, in buona fede, per eccesso. Non avevo considerato che vi sono processi che ad un certo momento vivono di vita propria e per i quali l’esito finale non è indifferente. Vengono in evidenza il clamore sorto, i personaggi coinvolti, le spese sostenute, l’attività degli organi investigativi, la notorietà acquisita. Per questi processi vi è un punto di non ritorno, al di là del quale solo la condanna del/degli imputato/i può essere l’epilogo soddisfacente. Pensiamo agli omicidi di Perugia e di via Poma e quali polemiche sono sorte per l’assoluzione definitiva degli imputati. Il caso di Elvo Zornitta e la prova falsificata da Zernar è ancora vivo.

Un analogo problema si è riproposto a Milano nel caso Eni-Nigeria, che ha visto un pubblico ministero accusare i vertici della Procura di insabbiamento delle dichiarazioni rese da un teste chiave dell’accusa che, se false, ne avrebbero indebolito la posizione, e altri pubblici ministeri accusati di non aver messo a conoscenza del Tribunale e dei difensori dell’esistenza di una videoregistrazione, di cui la Procura era da tempo in possesso, e che, a parere del Tribunale, costituiva una prova rilevante a discarico degli imputati. Luciano Violante su Repubblica, analizzando le vicende che coinvolgono attualmente la magistratura, scrive “L’eventuale occultamento di prove che avrebbero favorito gli imputati nel processo Eni costituisce il più recente segnale di allarme sulla affidabilità della magistratura. Se l’accusa fosse fondata sarebbe compromessa la reputazione professionale di una parte della Procura di Milano. Se così non fosse, sarebbe compromessa la serietà professionale dei magistrati di Brescia che hanno ordinato alla polizia giudiziaria di acquisire il contenuto dei pc dei colleghi di Milano. Si aggiungono le vicende del gip di Bari arrestato per corruzione e possesso di armi da guerra, il caso del procuratore di Firenze che avrebbe aggredito sessualmente una collega, le questioni Palamara, lo strano caso dei verbali segreti consegnati al dottor Davigo, il processo contro il procuratore di Taranto e altre vicende meno note ma altrettanto gravi”.

Al cospetto della gravità dei fatti, le spiegazioni date lasciano perplessi. A chi diceva che il Covid ha impedito le indagini sul caso di insabbiamento denunciato dal Pm Storari, è stato risposto che si tratta di «una scemenza che non si può sentire perché gran parte dei riscontri si fa anche da casa davanti a un computer»; allo stesso modo, quando si spiega che la videoregistrazione non è stata depositata perché ritenuta irrilevante, va ricordato che il giudizio di irrilevanza della prova che il Pm deve compiere riguarda le prove di accusa, ma non quelle a difesa, la cui valutazione di rilevanza/irrilevanza spetta al difensore dell’imputato. Come si legge nella sentenza del processo Eni-Nigeria “Risulta incomprensibile la scelta del pm di non depositare un documento che, portando alla luce l’uso strumentale che Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e della auspicata conseguente attivazione dell’autorità inquirente, reca straordinari elementi in favore degli imputati”.

Comunque la si riguardi, da questi e altri fatti l’immagine della magistratura esce fortemente compromessa e dà naturale spazio a tutte quelle forze che auspicano la separazione delle carriere tra giudice e pubblico ministero. Una separazione che, se prima poteva essere avversata richiamando la comune cultura del controllo di legalità e la garanzia dei diritti che animano sia il giudice che il pubblico ministero, oggi, vedendo pubblici ministeri che si muovono secondo logiche di parte, è molto più vicina. E forse servirà a eliminare troppe zone di ombra e troppi scaricabarile.

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