VISTO&RIVISTO Lirico, necessario e struggente. Poeticamente Garrone

minchella garrone capitano

di Andrea Minchella

VISTO

IO CAPITANO, di Matteo Garrone (Italia- Belgio 2023, 121 min.).

Chi non vuole capire, non capirà comunque. Matteo Garrone decide di raccontare una storia a chi sa con certezza che i disperati che ogni giorno arrivano sulle nostre coste non sono un problema da risolvere o un ricatto morale ed economico da rilanciare costantemente all’Europa, ma sono esseri umani disposti a qualsiasi cosa pur di raggiungere il nostro continente. Garrone racconta una storia fatta di persone, di nomi, di vite, di sofferenze e di traguardi che insieme compongono una moltitudine di individui che ogni giorno decide, per motivi e con desideri diversi, di lasciare la sua terra per raggiungere l’Europa. “Io Capitano” è un viaggio poetico e onirico su uno dei drammi più strazianti che sta silenziosamente riempendo il Mediterraneo di vittime e l’Europa di profughi. Garrone ha la delicatezza di prendere un tema così tragico e complesso e di restituircelo sotto forma di favola sociale in cui il viaggio si nutre di pelle e di ossa, di sangue e di lacrime, di grida e di silenzi dei due giovanissimi protagonisti che decidono di lasciare la loro casa per intraprendere un lungo cammino verso quella terra occidentale che ancora oggi fa sognare milioni di persone.

Seydou e Moussa, che parlano un gutturale e armonioso wolof, appartengono ad un mondo antico che non conosciamo e che crediamo molto, troppo, lontano dal nostro. In realtà Matteo Garrone ci regala un prezioso ritratto del Senegal, terra d’origine dei due ragazzi, in cui la povertà non toglie però la capacità di sorridere e di essere felici alle persone che abitano quei luoghi. Senza retorica, il regista romano racconta quelle terre come se fossero le nostre. I colori e le atmosfere di Dakar, anche grazie alla sussurrata fotografia del bravo Paolo Carnera, ci ricordano inevitabilmente le nostre città, soprattutto quelle del sud, in cui i rapporti umani erano la struttura portante della comunità in cui vivevamo. Seydou e Moussa, infatti, non scappano dalla guerra o dalle violenze, ma vogliono raggiungere l’Europa per migliorare la loro situazione economica e per cercare di esaudire il loro sogno di diventare dei cantanti famosi. Questo loro desiderio non rende meno giustificato il loro viaggio, anzi. Garrone si sgancia dalla retorica degli ultimi anni che distingue le varie tipologie di viaggi che i profughi intraprendono, cercando invece di descriverci come ogni viaggio, ogni persona, ogni storia, siano unici e degni di essere raccontati e conosciuti.

“Io Capitano” è un viaggio verso gli inferi che i due protagonisti compiono per raggiungere la loro meta. Il pittore Matteo Garrone realizza un ritratto complesso e pieno di colore in cui ogni pennellata diventa testimonianza sincera di un’odissea moderna. Ma il viaggio di Seydou e Moussa è qualcosa di più dell’avventura cantata da Omero. Garrone sembra riprendere il filo del suo ultimo film e di proseguire idealmente il viaggio di Pinocchio e Lucignolo verso il paese dei balocchi. E c’è di più. “Io Capitano” racchiude in sé tutti i film, o quasi, che il regista romano ha realizzato in questi anni: c’è la magia e la voglia di diventare grandi di “Pinocchio”, appunto, c’è la sua prima parte di filmografia in cui in presa diretta, e curando quasi tutti gli aspetti della realizzazione del film, Garrone cercava di fissare su pellicola le contraddizioni di una Roma in cui vivono immigrati da tutto il mondo emarginati e dimenticati, c’è la violenza di “Gomorra” e c’è la fantastica poesia del “Racconto dei Racconti”, quando una leggiadra compagna di viaggio dei due ragazzi si alza in cielo su un deserto carico di morte e di speranza.

Questo film, dunque, è un film potente perché sincero e volutamente fiabesco. Non fa sconti alla drammaticità degli eventi ma ne avvalora il significato intrinseco. Nulla poteva essere aggiunto dal bombardamento di informazione che negli ultimi anni ha come tema centrale l’immigrazione e i sui effetti. Tranne che un resoconto poetico e intimo dell’avventura di ogni uomo che si appresta a partire dal suo villaggio verso una meta fatta di speranza e di libertà. Garrone è riuscito, silenziosamente, a raccontarci la storia dal punto di vista opposto. Mette la cinepresa non sulle spiagge italiane, ma nei villaggi di Dakar. Fa un viaggio a ritroso non per giudicare ma per testimoniare la complessità del problema.

Questo racconto non piacerà a quelli che fanno demagogia sempre e comunque, e a quelli che non vogliono mai assumersi la responsabilità delle migliaia di vittime che il Mediterraneo custodisce. Piacerà a tutti quelli che pensano che la vera novità nell’osservare il fenomeno degli immigrati risiede nel vedere queste migrazioni come preziose opportunità da raccogliere per garantire al nostro paese una lunga e sana vita fatta, anche, di integrazione, di convivenza, di emancipazione, di arricchimento culturale e sociale.

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RIVISTO

TERRA DI MEZZO, di Matteo Garrone (Italia 1996, 78 min.).

Il primo lungometraggio di Matteo Garrone è già un piccolo capolavoro. Girato tutto in presa diretta, filmato direttamente dallo stesso Garrone, “Terra di Mezzo” è un diario della quotidianità romana di immigrati africani che faticano ad integrarsi nella caotica capitale.

Il giovane Garrone capisce che le storie più interessanti risiedono dove gli ultimi vivono e muoiono. Un racconto spiazzante e sussurrato che colpisce per la sua realistica narrazione.

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