VISTO&RIVISTO Uno sguardo macabro su un’Italia che non c’è più

minchella avati signor diavolo

di Andrea Minchella

VISTO

IL SIGNOR DIAVOLO, di Pupi Avati (Italia 2019, 86 min.).

Più di quarant’anni dopo il capolavoro” La Casa dalle Finestre che Ridono”, Pupi Avati non sembra aver perso freschezza e genialità. Il maestro, infatti, decide di dirigere un suo romanzo, “Il Signor Diavolo. Romanzo del Gotico Maggiore” edito da Guanda, uscito l’anno scorso, in cui tratteggia in maniera dettagliatamente macabra un’Italia, quella contadina degli anni cinquanta, che non c’è più e che fa da sfondo ad una storia agghiacciante e oscura.

Da Roma parte un anonimo funzionario del Ministero di Giustizia per fare luce su un terribile omicidio avvenuto nelle campagne venete, il cui autore è un gracile e angelico bambino, certo di aver ucciso il Diavolo. La vicenda assume una valenza delicata perché in quegli anni, in cui il monopolio politico apparteneva ad una onnipresente Democrazia Cristiana, un processo in cui l’accusa, più o meno celatamente, fosse stata individuata tra persone vicine o, addirittura, dentro la Chiesa, avrebbe avuto ripercussioni negative sulle elezioni politiche, ormai prossime, per il partito che da sempre legava il suo destino a quello della “religione” di Stato. Il tentativo, dunque, del Governo Italiano è quello di insabbiare tutta la vicenda. Il funzionario, un bravissimo e misurato Gabriele Lo Giudice, dovrà incontrare il bambino, chiuso nel carcere di Venezia, per cercare di convincerlo che in realtà egli ha ucciso semplicemente un suo coetaneo, e non il Diavolo in persona. In realtà la situazione che gli si presenterà a Venezia è più complessa ed oscura di quanto il giovane emissario aveva immaginato. Suspense e angoscia aumentano e lo spettatore viene catapultato in una gotica e nebbiosa storia di diavoli e riti satanici che, in quegli anni, riempivano i racconti della gente contadina che lavorava duramente e viveva, spesso, come nell’antichità, un’esistenza scandita da superstizione, leggende e luoghi comuni. Spesso la religione veniva vista come rifugio. Altri, però, la vivevano come legittimazione di cattiverie e dicerie su persone non gradite o temute. In questo sottobosco bucolico, dunque, prende forma una storia diabolicamente lucida e magistralmente raccontata da un Pupi Avati che ha sempre avuto un occhio di riguardo per le produzioni che si allontanassero dal genere della commedia, per invadere con successo un genere “horror gotico” difficile da realizzare in questo modo, equilibrato e centrato.

Il cast, sempre all’altezza, sia per quanto riguarda i protagonisti che per le comparse, vede la presenza di tanti attori legati al regista bolognese: da Gianni Cavina e Lino Capolicchio, spesso presenti nei lavori di Avati, al profondo Alessandro Haber, fino al giovane Cremonini, che proprio nel “Cuore Grande delle Ragazze” di Avati era riuscito ad esprimere una capacità recitativa di alto livello.

Il ritmo del film è incalzante e riesce a mantenere alta l’attenzione dello spettatore che, probabilmente, conosce un altro cinema di Avati. Musiche e sceneggiatura sono due ingredienti fondamentali, soprattutto per produzioni di questo genere: ben scritte e perfettamente cucite addosso a delle scene che nulla hanno da invidiare a quelle dei più riusciti “horror” d’oltreoceano.

Un interessante viaggio in un’Italia ormai soltanto impressa nelle memorie dei più anziani, magistralmente filmato con un color seppia che aumenta la tensione narrativa, che fa da sfondo e da protagonista all’interno di una vicenda macabra e reale, in cui tradizioni, leggende e miti diventano terreno fertile per la fantasia di migliaia di persone.

RIVISTO

LA CASA DALLE FINESTRE CHE RIDONO, di Pupi Avati (Italia 1976, 106 min.).

Nel 1976 un giovane regista bolognese, sulla scia probabilmente del più noto romano Dario Argento, stava per terrorizzare l’intera Italia con quello che sarebbe diventato nel giro di poco tempo un vero “cult”. “La Casa dalle Finestre che Ridono”, infatti, lasciò tutti stupiti: una storia agghiacciante, dei protagonisti macabri e normali nello stesso tempo, un ritmo frenetico e circolare che imprigionavano lo spettatore in un incubo che non aveva fine. La provincia ferrarese, nebbiosa e umida, faceva da palco ad un soggetto, scritto dallo stesso Pupi Avati, che non lasciava spazio all’immaginazione. Un pittore maledetto, un restauratore riservato e temerario, una cittadina troppo silenziosa e una serie di strani omicidi, sono la colonna portante di un asfissiante racconto che tiene incollati alle poltrone gli spettatori più esigenti e critici.

Il film è sceneggiato dallo stesso Avati, da Maurizio Costanzo e da Gianni Cavina che, come il bravissimo Lino Capolicchio, regala un’intensità recitativa e una macabra presenza scenica perfettamente misurati per un progetto di questa portata.

Pupi Avati, da quel lontano 1976, ha realizzato decine di film in cui l’Italia degli anni quaranta e cinquanta era la principale fonte di ispirazione. Il registro, però, si avvicina più a quello della commedia o del racconto drammatico. Ogni tanto, fortunatamente per noi, il desiderio del regista di tornare alle storie più cupe e macabre è così forte da fargli realizzare progetti più spaventosi ed oscuri: “L’Arcano Incantatore” o “Il Nascondiglio” sono dei veri capolavori “horror” che rendono la filmografia di Avati completa e più eterogenea.

Minchella avati signor diavolo – MALPENSA24