Con il documentario “Il banco vince” i bar di Gallarate non hanno più segreti

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GALLARATE – «Dall’agitazione, dalla shakerata, al servizio, all’appoggio del tovagliolo, del bicchiere al bancone, tutto questo è una scena. Una scena di un film». Così dichiara Alessandro De Luca del “Rufus” di Milano, uno dei protagonisti del documentario “Il banco vince”. Si tratta dell’ultimo lavoro di Gabriele Colombo, videomaker gallaratese, che ha trascorso gli ultimi due anni indagando su una materia peculiare: i banconi dei bar. Ecco il teaser.

Un punto d’incontro

La ricerca, con l’accompagnamento sonoro del duo elettronico Fys, e delle esibizioni dal vivo di Black Beat Movement e Vicolo Corto, non si è limitata ad aspetti puramente tecnici, come l’ideazione e progettazione di un bancone in base alle diverse esigenze, o i segreti dietro la creazione del cocktail perfetto. È stato esplorato anche l’aspetto umano, il rapporto che si instaura tra avventore e barman in quel punto d’incontro, e tutte le storie che ne nascono. Gabriele ha raccontato la genesi della sua ultima fatica.

Come le è venuta l’idea di fare un documentario sui banconi dei locali?
«Giro documentari per passione da un po’ di anni. Ho un cugino che è un grande barman e vive all’estero, mi ha aiutato a farlo. Mi piace da sempre frequentare i locali, stare ai banconi e parlare con le persone, sono cresciuto a quello del bar di mia nonna, il circolo di Crenna. Ne è venuta l’idea di raccontare come nasce un bancone, e l’argomento è stato affrontato sotto un punto di vista un po’ diverso dal solito. Non solo come luogo dove si sta a bere, ma anche la parte più tecnica: come viene creato, come ci si lavora».

Come ha scelto i locali di cui parlare?
«Sono partito dai cocktail bar, che sono quelli che conosco meglio. Il primo è stato quello di mio cugino, Emanuele Balestra, che è direttore dei bar dell’hotel “Le Majestic” di Cannes. Mi ha passato alcuni contatti. Alcuni poi sono posti dove vado spesso, a cui sono legato sentimentalmente. Ho scelto un paio di birrerie, in particolare il birrificio a Como di Agostino Arioli, un vero e proprio pioniere. Degli ingegneri che costruiscono i bar, uno è stato la Forbar, azienda di Gazzada Schianno, l’altro Oleg Radice, che ne ha realizzati per alberghi importantissimi in Italia. I musicisti invece li conoscevo direttamente».

Mi può parlare di altri suoi lavori? Quelli precedenti e quelli che progetta per il futuro.
«Ho iniziato da autodidatta, infatti non mi definisco regista, ma videomaker. Nasco come educatore e ho sempre usato i miei lavori come strumento per progetti educativi. Ho girato tanti piccoli cortometraggi e documentari nelle scuole con i ragazzi. Ad esempio “The Piecemaker”, sulla musica hip hop in Italia, o “La solitudine è solo un punto di vista”. Ora lavoro a uno sull’integrazione dei migranti in alcune strutture qui nel Nord Italia, e a un altro per il Cps di Gallarate sulla salute mentale. Il prossimo sarà sul tema della scrittura a tutto tondo, i ghost writer, il giornalismo, com’è cambiata adesso».

Quali sono i banconi a cui si è più legato, e qual è il suo preferito del documentario, o che l’ha colpita di più?
«Senza dubbio il “Crazy Pub” di Casorate, perché ci sono cresciuto. E il “China Tang” di Londra. Dal punto di vista umano, tolto mio cugino, Simone Maci e Agostino Arioli perché sono due geni, nel loro ambiente sono persone che cercano di innovare sempre. Mentre il più simpatico di tutti è Oleg de “Il Barbaresco” di Gallarate, ha saputo rendere divertenti anche le cose più tecniche».

C’è qualcosa che avrebbe voluto mettere e non è riuscito a farlo?
«Mi sarebbe piaciuto visitare altri posti d’Italia, come Città di Castello, o Udine, ma a un certo punto mi son dovuto dare un limite. Ce ne sono tantissimi, da farci un altro documentario. Perchè è bello esplorare i banconi, ma anche tutte le loro storie».

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