Gian Pietro Rossi, l’uomo, la politica, un ideale

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Soltanto per sintetizzare la vita di Gian Pietro Rossi, scomparso questa  notte, mercoledì 24 luglio, a 92 anni, non basterebbe un volume. Un uomo di un’altra epoca e di un’altra cultura, politica e morale. Uno di quelli che hanno “rifatto” Busto Arsizio nel secondo Dopoguerra, mettendoci del loro, spesso rimettendoci, senza mai arrendersi. Anni difficili e a un tempo esaltanti. Rossi c’era. E c’è stato fin che ha potuto, fino a qualche settimana fa, pronto a interloquire, commentare, suggerire. Padre nobile della politica bustocca, l’hanno definito nel tentativo di reregarlo nel passato. Invece, un protagonista che non ha mai perduto un colpo. Lo testimoniano i suoi numerosi interventi a tutto campo, l’assidua presenza elettorale e in consiglio comunale dove, non abbiamo dubbi, gli sarebbe piaciuto tornare per l’ottava volta come sindaco.

A lui si devono alcune delle realizzazioni pubbliche di maggior peso di questi decenni. L’elenco sarebbe interminabile e, tutto sommato, finirebbe per sminuire l’animo e l’anima di un uomo inimitabile. Al quale si potevano perdonare anche le iperboli degli ultimi anni, quando si lasciava andare alla narrazione di episodi improbabili, che però lo corroboravano mentalmente. Perché la sua mente non ha mai smesso di lavorare, magari qualche volta divagando, ma subito presente, pronta a dare il proprio contributo a favore della città.

Potremmo fermarci qui, evitando di precipitare nella retorica o nel pressapochismo di certe commemorazioni giornalistiche. Ma per celebrarne la figura raccontiamo un episodio che a molti parrà fuori luogo e che, invece, secondo noi, definisce l’uomo. Anni bui quelli dell’inchiesta giudiziaria che lo tormentò per tredici  lunghi anni, prima di arrivare alla piena riabilitazione. Anni di solitudine, di amarezze e di ingiuste accuse. In visita a Busto Arsizio arriva Oscar Luigi Scalfaro, presidente della Repubblica, amico di Gian Pietro Rossi. Al Sociale la cerimonia ufficiale. Rossi è lì, mescolato tra la gente.

Ha una lettera da consegnare al presidente, chiede il permesso a qualcuno dello staff del Quirinale. La risposta sono due agenti in borghese che tengono lontano l’ex sindaco e senatore da Scalfaro. Non riuscirà a consegnare la lettera, ritenuta inopportuna e, data la situazione, irriverente per il presidente. Con la busta tra le mani, Gian Pietro Rossi esclama: “Capisco, gliela manderò per posta”. E’un inquisito di Tagentopoli, scontato il contenuto della missiva: la vecchia amicizia non ha più valore. Un altro dolore, ma subito una giustificazione da uomo col senso delle istituzioni. E dello Stato. Come il giorno che Ciriaco De Mita, allora potente segretario dellla Balena Bianca,  gli chiese, lui fanfaniano di ferro, di lasciare il laticlavio e di tornare a Busto a fare il sindaco. Ubbidì, ben sapendo ciò che perdeva e le incombenze che lo aspettavano in città. Come quando rinunciò a diventare ministro opponendo una giustificazione oggi incomprensibile alle nuove generazioni della politica: “Non mi sento pronto”.

Adesso davvero ci fermiamo qui, nonostante ci sia molto altro da aggiungere e da ricordare. Ci fermiamo qui portando rispetto all’uomo, prima che al politico, pure coi limiti di chiunque scelga o abbia scelto di navigare nel mare infido della politica italiana e locale. All’uomo e alla sua storia, che non trova paragoni in quelli di adesso. Anche solo per un aspetto: la fedeltà a un ideale di serietà e di impegno pubblico. Che è tutto e forse anche di più.

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