Il Cavaliere, l’arcistar nazionale

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di Massimo Lodi

Una personalità unica, irripetibile, esagerata. S’è preso ogni spazio possibile, mirando verso orizzonti nascosti ad occhi altrui. Dell’Italia Paese che amava ha rappresentato l’arcistar. Silvio Berlusconi appartiene alla categoria degli extra, gente rara, dotata di genio, capace d’intuire l’impossibile. Indomabile, spavalda, temeraria.

Costruita una fortuna d’imprenditore, entrato da generoso patron nell’adorato calcio, provò a trasferirla nella politica. Il successo non fu eguale, però la svolta epocale apparve indiscutibile. Con la televisione commerciale ha cambiato la mentalità della nazione, introdotto modelli di comportamento sconosciuti, fondato una nuova cultura di massa. Si può giudicarla in positivo, si può criticarla in negativo. Ma di questo s’è trattato. Dagli anni Ottanta il modello americano, cui egli s’ispirava a iniziare da linguaggio e comunicazione, s’è trasferito qui da noi: con i pregi, con i difetti. Una rivoluzione nel costume, propedeutica alla rivoluzione nella politica.

Berlusconi la lanciò nel ’94, lo scopo era fermare la “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto che sembrava dover portare facilmente al trionfo la sinistra: i detestati comunisti. Un danno considerato mortale. E dunque avanti con l’idea di fondare il centrodestra, sdoganando il Msi-An di Fini e la Lega di Bossi, unendo nordismo/regionalismo a meridionalità/statalità, innescando il sistema bipolare sino ad allora inesistente, ancorandosi al popolarismo europeo, semplificando il contatto con gli elettori, mirando a una seconda rivoluzione: quella liberale. Tanto agognata, mai giunta a realizzo. Nel mezzo, tra una legislatura e la successiva, il tormentone delle leggi ad personam e la sterminata fila di processi.

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Massimo Lodi

Anche nella politica Silvio cambiò a suo modo il costume. Creò l’one man party, il partito dell’uomo solo al comando perché non replicabile. Difatti non ebbe/non ha delfini, pur lasciando una memorabile eredità. Nel suo ventennio, costellato da quattro investiture governative, ha speso molte promesse, guadagnato pochi obiettivi. Un po’ per colpa individuale, un po’ per le colpe degli avversari. Spesso vòltisi in nemici pregiudiziali, incoraggiati a contrastarlo dalle accuse di conflitto d’interessi, di mischiare pericolosamente la vita pubblica con quella privata, di circondarsi di laudatores interessati anziché da collaboratori efficienti.

Forse un universo inevitabile, dato che ruotava attorno al monarca della contemporaneità tricolore. Così s’è sempre atteggiato Silvio, non con l’intento di sfoggiare un impositivo stigma di superiorità: semplicemente obbedendo all’impulso avvertito dentro di sé, come risulta tipico dei grand’uomini destinati a fare la storia, a rimanervi, ad esserne un lungo transito invece d’un effimero passaggio. Lo ha aiutato lo speciale tratto umano, mai negato neppure dai più acerrimi contendenti. Non avendo voluto/trovato epigoni in Forza Italia, il lascito partitico sembra destinato dal tempo corrente alla Meloni assai più che a Salvini e tantomeno a quanto rimane, qui e là, d’uno sparpagliato centrismo. Morto Berlusconi, il berlusconismo gli sopravvive. Tocca a Giorgia dimostrare di saperlo accogliere e perpetuare, attualizzandolo trent’anni dopo la “scesa in campo” del mitico Cavaliere.