Il miraggio di Busto provincia, salto all’indietro di quarant’anni

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Marco Reguzzoni, presidente di Volandia

Pareva che il miraggio di Busto Arsizio capoluogo di provincia si fosse estinto nelle infinite chiacchiere che, per qualche decennio, l’hanno sostenuto. Invece no, rieccolo spuntare nella proposta di Marco Reguzzoni, già maggiorente della Lega all’epoca di Bossi, ora a capo del movimento politico I Repubblicani, di fondere in un’unica città Busto e Gallarate. Soluzione propedeutica, appunto, alla formazione di una nuova provincia che, abbandonata Varese, si amministrasse per conto proprio inglobando anche parte dell’Alto Milanese.

Un’idea che riporta indietro le lancette dell’orologio di almeno quarant’anni, quando i bustocchi, meglio, quando la classe dirigente bustocca si intestardì sulla necessità di recuperare prestigio, autorevolezza politica, sociale ed economica, con l’autonomia istituzionale. Fiumi di parole e di avventate soluzioni: difficile, se non impossibile, dare al territorio del Bustese la dignità di provincia, c’era chi si sarebbe accontentato dell’istituzione di un comprensorio, poi di un distretto, poi di un circondario. Tutto pur di affermare la cosiddetta bustocchità e cancellare la frustrazione di dover dipendere da Varese. Colpa di Mussolini, che nel ’27, forse per ripicca a causa di uno sgarbo ricevuto, scelse la Città Giardino come capoluogo del nascente ente.

Falliti e archiviati tutti i tentativi di recuperare la titolarità perduta, entra ora in scena Reguzzoni. Riapre il dibattito e chiede che la politica, le parti sociali e, ultimi ma non ultimi, i cittadini si esprimano sulla fusione Busto Arsizio/Gallarate (“Come Buda e Pest”) e, quindi, sull’avvio del farraginoso e lungo iter per diventare provincia. Ce n’è bisogno? Ma le province non dovevano essere abolite? Non sono già troppe quelle esistenti? Alcune sono una sorta di obbrobrio istituzionale, come in Sardegna e in Puglia e in altre regioni dove ci sono province con un numero di abitanti inferiori a quelli della sola Gallarate. Più che enti intermedi, poltronifici per accasare trombati e amici degli amici.

Tant’è vero che con la legge Delrio, il governo Renzi cercò di dare un colpo di spugna proprio alle province. Dopo il referendum che bocciò in modo clamoroso il progetto, si è ancora in attesa che vengano recuperate le funzioni originarie e si ritorni al suffragio universale per eleggere presidenti e consigli provinciali. Già, ma quando?

Nel frattempo si discetta di sommare enti e enti. Di cosa stiamo discutendo? Tanto più che se n’è discusso già a sufficienza, fino allo sfinimento. I tempi sono cambiati: per questo sarebbe importante e ineludibile cercare di far funzionare quello che già c’è. Di mettere mano alla riorganizzazione burocratica dei presidi istituzionali e degli uffici dove si gestisce la cosa pubblica. Di ridare sostanza (e speranze) a una sistema che va implodendo per tutto quello che sappiamo e che, per quanto ci è stato dato di capire, è proprio la mission principale dei Repubblicani di Reguzzoni.

Togliere non aggiungere. Non servono sommovimenti istituzionali ma garanzie operative. Malpensa, le infrastrutture, la mobilità, gli ospedali richiedono sì sinergie di intenti, non sovrastrutture. Ecco il punto. Soprattutto in un’area ad alta densità economica e produttiva, per la quale risulterebbero deleteri i percorsi per complicare anziché semplificare. Ci sembra persino ovvio. Tanto ovvio che certe proposte, come abbiamo visto già in passato, in epoche meno involute dell’attuale, sono ritenute un’utopia. Al massimo funzionano come provocazione; se non per la visibilità dei proponenti, almeno per un obiettivo riconosciuto e concreto: quello di stimolare la politica a fare meglio di quanto non stia facendo oggi. Cioè, poco e male. In molti casi, niente.

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