Giorgio Merletti (Cnel): «La “tecnologia del polpastrello” ci salverà dalla crisi»

Giorgio Merletti

VARESE -«Essere liberi costa solo qualche rimpianto». E’ questo il mantra di Giorgio Merletti. In politica, ma soprattutto nella vita quotidiana e lavorativa. Una frase che l’ex sindaco di Arsago, di fresca nomina all’interno del Cnel, ha sempre declinato nella sua vita. Senza guardare troppo in faccia a chi aveva davanti e senza infiocchettare, con ipocrita diplomazia, le sue idee sempre “sparate” nude e crude.

Giorgio Merletti è un imprenditore. Per anni ha ricoperto il ruolo di presidente nazionale di Confartigianato ed è stato prestato alla politica per fare il sindaco di Arsago e, recentemente, il candidato sindaco per il centrodestra a Varese. Dove la sua candidatura è durata 3 giorni e mezzo. Poco, troppo poco. Abbastanza per far capire chi avrebbe comandato la truppa della coalizione qualora quell’ipotesi si fosse tramutata in realtà. Come è andata lo sappiamo: proposto da Fontana a Milano, bruciato a Varese da Roma. Quel che non sappiamo (e lui non lo rivela) è se la cosa gli sia costata qualche rimpianto.

Merletti la sua recente nomina è certamente prestigiosa. Per certi aspetti dà continuità al ruolo di presidente nazionale di Confartigianato che ha ricoperto a lungo. Ma il Cnel non era quello che voleva abolire Renzi perché inutile? 
«Sì, ma credo che l’idea di abolirlo non fosse colpa sua. Inoltre non mi pare che sia inutile dal momento che in Francia, in Inghilterra, in Germania e anche negli Stati Uniti esiste un corrispettivo del nostro Cnel. Anzi, persino l’Europa ce l’ha. Insomma se esiste nei Paesi più importanti al mondo a qualcosa servirà, non crede?».

Esattamente a cosa?
«Semplice: è uno strumento che affianca la politica nel momento in cui va a fare leggi che impattano il mondo economico. E siccome è composto da esperti e rappresentanti delle categorie produttive, non mi pare sia poi così inutile».

Sindaco, imprenditore, presidente di Confartigianato. Insomma non le mancano le skill per fare un quadro della situazione economica. E’ più o meno drammatica di quanto si diceva solo qualche mese fa? 
«Queste sono crisi che non si risolvono in pochi mesi. Posso dire però, per averlo provato sulla mia pelle di imprenditore, che il mondo del lavoro ha sofferto molto di più la crisi del 2008. In quel periodo gli unici a fare utili a più cifre erano le banche. Il Covid ha aggravato la situazione che per certi versi ci portiamo dietro proprio dal 2008».

Come se ne esce? 
«Guardi sento parlare di innovazione e resilienza. Va bene tutto per carità. L’unica ricetta però che conosco è puntare sulla qualità. Qui non ci batte nessuno e non dobbiamo nemmeno aver paura della Cina».

Forse qualche anno fa. Oggi i cinesi hanno fatto passi da gigante anche in tema di qualità. Non crede? 
«Senta, oggi nessuno può più fare a meno di smartphone, pc e altri strumenti tecnologici applicati all’industria. Questo significa che le aziende hanno innovato. Anche nella mia realtà imprenditoriale non possiamo più pensare di lavorare senza il supporto dell’informatica e delle tecnologie. Però attenzione, perché a furia di spingere troppo su questo tasto poi si perde il patrimonio di quella che io chiamo “la tecnologia del polpastrello”».

Ovvero? 
«Porto come esempio un’eccellenza italiana di fama internazionale: la casa automobilistica Lamborghini. Qui ci sono stazioni di montaggio super tecnologiche. Ma l’ultima è dotata di una telecamera e 2 persone. E il lavoro essenziale è quello dei due addetti che effettuano un controllo minuzioso e che solo l’uomo può fare. Ecco la “tecnologia del polpastrello”. E’ quella delle competenze e dell’esperienza e nessuna macchina la potrà mai sostituire. Alla Lamborghini come in ogni altra realtà produttiva del nostro Paese. Grande o piccola che sia».

D’accordo, ma poi bisogna fare i conti con i costi e la competitività sui mercati. Qui come la mettiamo? 
«L’obiettivo non può essere fare concorrenza alla Cina, perché vorrebbe dire “morire”. Bisogna invece puntare sul fatto che se un prodotto è fatto bene ed è di grande qualità, il costo diventa un risparmio. Lo so non è facile cambiare prospettiva, ma è così».

Lasciamo la sfera economica e passiamo in quella, seppur breve, politica. Com’è andata veramente la vicenda della sua candidatura a sindaco del centrodestra a Varese? 
«Semplice: mi ha contattato il presidente Attilio Fontana e mi ha proposto la cosa. Io ho accettato. Poi però mi hanno spiegato che non andavo bene perché il mio nome “è stato calato dall’alto”. Io non credo che Fontana abbia agito di sua iniziativa personale».

Non è che sulla scelta hanno influito le sue prime uscite da potenziale candidato? Quella del “dittatore illuminato” ad esempio? 
«Non saprei e a questo punto non mi importa. Ho detto quello che penso. Credo ancora oggi che, non solo Varese, ma tutta l’Italia abbia bisogno di un “dittatore illuminato”. Purtroppo non ci sono più uomini di spessore quali erano gli Einaudi e i De Gasperi. Anche loro hanno superato un periodo, quello bellico, forse peggio della pandemia. Oggi la politica produce Giuseppe Conte, che ha fatto 3 Dpcm in dieci giorni: il primo, il secondo per correggere il primo e il terzo per correggere il secondo».

Perché secondo lei c’è questa distanza siderale tra politica e mondo reale? 
«Una volta il politico nasceva e cresceva nella comunità. Oggi le scelte vengono decise nelle segreterie di partito lontano dalla realtà. E il risultato è quello di avere a governare il Paese una classe decontestualizzata dalla realtà. Con persone che, per tornare alle nostre latitudini, non sanno nemmeno dove si trovi Varese. Anzi, non sanno nemmeno dove sta Roma pur sedendo in parlamento nella Capitale».