VISTO&RIVISTO La relatività secondo George Clooney

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di Andrea Minchella

VISTO

THE MIDNIGHT SKY, di George Clooney (Stati Uniti 2020, 122 min., Netflix).

Tutto è relativo, o quasi. George Clooney, con un tempismo sospetto, ci regala involontariamente uno spaccato angosciante e poetico sulla difficile situazione che stiamo vivendo, tutti, da quasi un anno a questa parte. “The Midnight Sky” non è altro che una potente e chiara riflessione sulla perdita repentina delle certezze e sull’egoismo che sembrano avere dato, negli ultimi anni, una forza propulsiva sproporzionata e pericolosa all’intera umanità. Oggi noi, come succede nel racconto di Clooney, ci ritroviamo soli e vulnerabili davanti ad un futuro incerto e destabilizzante. Come nella pellicola, anche noi ci ritroviamo a vivere, e a cercare con tenacia, piccole e necessarie parentesi di dolcezza e calore umano, che possano alleviare la paura e l’ansia che stanno caratterizzando la nostra attuale esistenza.

Il film, tratto dal romanzo del 2016 “La Distanza tra le Stelle” è formato, non sempre in maniera equilibrata e ben articolata, da due principali storie: quella dell’astronomo Augustine Lofthouse, un dimagrito e fortemente evocativo George Clooney, che si ritrova da solo, a causa di un non meglio precisato disastro mondiale, in uno sperduto rifugio-laboratorio dell’Antartide. Malato e smarrito, Augustine cerca di mettersi in contatto con un gruppo di astronauti di ritorno da un pianeta, il K-23, che lo stesso astronomo aveva scoperto e indicato, parecchi anni prima, come possibile luogo colonizzabile dall’uomo. In un pianeta in cui la popolazione è costretta a rifugiarsi in luoghi sotterranei, la solitudine dello scienziato diventa fortemente simbolica e si intreccia con un’atmosfera sospesa e indefinita.

L’esperienza di Augustine diventa la nostra esperienza, diventa un viaggio all’interno della nostra anima, cupa e insofferente a causa degli ultimi eventi che ci hanno cambiato la vita per sempre. Ad un certo punto l’inaspettato incontro con una bambina cambierà i connotati alla solitudine eremitica del vecchio scienziato. Tra ricordi, visioni e speranze, la narrazione diventa sempre più sussurrata e salvifica.

L’altra storia è quella degli astronauti che stanno tornando sulla terra dopo aver “conquistato” il pianeta K-23, un luogo bellissimo e incontaminato dove è possibile vivere come sulla terra, o forse meglio. Il gruppo di astronauti non sa che il loro ritorno avverrà su un pianeta terra afflitto da un disastro che ha obbligato l’intera popolazione a nascondersi per sopravvivere. Tra gli astronauti c’è Sully, una dolce e forte Felicity Jones, che con la sua gravidanza impone un elemento dirompente di speranza, di vita e di verità che annienta definitivamente qualsiasi pessimismo o cinica analisi.

Seppur realizzato con uno stile scenografico e ritmico di altissimo livello, il film risente di una non riuscita completamente commistione tra le due storie. Sembra essere, la pellicola, una sequenza di prologhi di un film che non parte mai. La linea narrativa continua a spezzarsi senza mai avvolgere continuativamente lo spettatore che da Clooney si aspetta una capacità descrittiva lineare e perfettamente equilibrata. La sequenza degli astronauti che riparano le antenne del loro modulo spaziale è un chiaro e generoso riferimento al “Gravity” del bravissimo Cuàron, in cui Clooney e Bullock “danzavano” pericolosamente in uno spazio asfissiante e sospeso che toglieva il fiato anche allo spettatore più scettico.

Rimane, comunque, un interessante ritratto sulla speranza e sulla continua relatività delle situazioni che viviamo, che fanno sempre parte di un più grande e complesso disegno i cui tratti, spesso, ci appaiono incomprensibili.

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RIVISTO

ARRIVAL, di Denis Villeneuve (Stati Uniti 2016, 116 min.).

Un vero capolavoro sulla forza della lingua come unico mezzo di interconnessione tra individui diversi. Al di là della bellissima trama fantascientifica, “Arrival” diventa un prezioso e potente ritratto sulla fragile condizione umana, sempre incastrata tra decisioni sofferte, rimpianti e dolori ancestrali.

Amy Adams ci regala, forse, la sua interpretazione più profonda e convincente di sempre. Villeneuve si conferma come uno dei più attenti e sensibili autori degli ultimi anni. Un meraviglioso viaggio dentro l’inconscio e i ricordi più nascosti di ognuno di noi.

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