VISTO&RIVISTO Nel buco dove il nero diventa verità e poesia

minchella frammartino visto rivisto

di Andrea Minchella

VISTO

BUCO, di Michelangelo Frammartino (Italia, Germania, Francia, 93 min.).

Siamo nel buco. Possiamo scorgere delle mucche. Possiamo sentire il suono dei loro campanacci. Da un buio ansiogeno e tetro nel giro di pochi secondi si passa ad una luce straripante che riempie i nostri occhi e tranquillizza le nostre anime. Questo è l’incipit del meraviglioso “Il Buco”, il terzo lungometraggio del regista e docente Michelangelo Frammartino.

“Il Buco” diventa subito il luogo dove possiamo ripararci grazie ad una capacità unica del regista di scardinare il linguaggio cinematografico contemporaneo ricomponendolo in una lingua universale che si miscela con la voce della natura. “Il Buco”, oltre ad essere un film potentemente iconografico, è una vera e propria esperienza sensoriale. Una di quelle esperienze che ti lasciano delle tracce indelebili nello spirito e che ti porterai dentro per sempre. La storia, già avvincente di per sé, diventa marginale rispetto al vero protagonista del racconto: il buio. Il buio che ci mostra in maniera sussurrata e onirica le pareti della grotta in cui alcuni speleologi sessant’anni fa fecero una silenziosa quanto determinante esplorazione, misurando e donando all’umanità la terza grotta più profonda del mondo. L’Abisso di Bifurto, nello straordinario parco nazionale del Pollino, diventa nell’opera di Frammartino il protagonista assoluto.

La luce e il buio, che si rincorrono in una spietata e dirompente guerra di ombre, avvolgono gli speleologi che si cimentarono in una spedizione anacronistica rispetto all’Italia degli anni 60. Mentre, infatti, questi giovani speleologi provenienti dal Nord Italia decisero di attraversare l’intero stivale per andare alla ricerca della profondità assoluta in un’Italia ancora rurale e arretrata, il paese stava vivendo l’euforia del boom economico, l’invasione della televisione nelle case degli italiani, l’architettura esplosiva dei grattaceli di Milano che proiettavano i sogni e le speranze verso l’alto. Verso il basso, invece, vogliono spingersi i protagonisti di un’impresa che non fu raccontata nell’immediato. A differenza della compulsiva voglia di raccontare minuto per minuto la rinascita di un paese che ancora stava leccandosi le ferite di un conflitto mondiale assurdo e tragico, la scoperta della grotta di Bifurto, complice anche la riservatezza e la timidezza proprie del mondo della speleologia, rimase per molto tempo come una semplice questione scientifica e non come quella grande e unica impresa memorabile che realmente fu.

Per raccontarla, o meglio testimoniarne l’esistenza, ci sono voluti sessant’anni e un regista sensibile e riservato come Michelangelo Frammartino. Solo lui poteva cimentarsi in una realizzazione diretta, reale e sincera. Frammartino si cala con il fonico, l’operatore e i giovani attori in un ambiente angusto, umido e buio che farebbe scappare qualsiasi cineasta. Il racconto è distante perché il regista non vuole riempire i silenzi e il buio di un’esperienza unica e irripetibile. Con un lavoro di immensa capacità cinematografica l’autore realizza una vera spedizione verso l’ignoto, fornendoci dialoghi indecifrabili perché indecifrabile è l’intera vicenda. Quella grotta diventa ignoto avvolto dal nero, che qui non è l’errore che nel linguaggio cinematografico di solito rischia di essere, e diventa grembo materno perché nascere è un’esperienza tragica e fredda. Quella grotta diventa luogo di riparo ma anche luogo da cui fuggire, diventa luogo di delusione perché alla fine del tragitto ci aspetta una piccola e insignificante pozzanghera di fango e sassi. La grotta di Frammartino, dunque, diventa esperienza totalizzante di vita e di morte. E dunque ne siamo attratti ma nello stesso tempo vorremmo più aria e più luce. Frammartino prende una storia carica di significati e di speranza e la racconta con una capacità espressiva unica e profonda.

La storia si fonde con la vita di un pastore, Zì Nicola, che osserva la spedizione e cura il suo gregge con una poetica del corpo che paralizza lo spettatore. La sua lingua è la lingua della natura e diventa voce narrante dell’intera vicenda. I suoi gesti sono i gesti dell’umanità che aspetta che il progresso faccia il suo corso. Poetica e mimica diventano un’unica lingua universale e terapeutica per tutti quelli che non si fidano delle illusioni.

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RIVISTO

IL VENTO FA IL SUO GIRO, di Giorgio Diritti (Italia 2005, 110 min.).

Magnifico. Potente. Schietto e intimo. Giorgio Diritti realizza un racconto prezioso di una comunità che vive il passare del tempo come naturale conseguenza della vita senza paure né ipocrisie.

Un’esperienza unica che Diritti sa raccontare perché non scende a compromessi e lascia intatti i dialoghi, le immagini e i personaggi.

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