Quando ci possiamo dire vecchi? Alla faccia del Covid

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di Ivanoe Pellerin

Cari amici vicini e lontani, proprio in questa tragica epoca di Covid e di incredibili dibattiti sui “vecchi” mi piace raccontarvi, anche per provocazione in tema di zona rossa, l’incontro di qualche anno fa con un amico, un sapiente collega, che non vedevo da molto tempo. Fu subito una grande gioia e, poiché “c’è più tempo che vita”, decidemmo di festeggiare. All’epoca non vi erano divieti di alcun genere. Ad una tavola golosamente imbandita di un noto ristorante toscano, di fronte ad un sollazzo gastrico garantito, conversavamo amabilmente mentre ci avviavamo alla scelta. Dopo alcune meditate riflessioni decidemmo per portate decisamente succulente. Chiedemmo un rosso importante, un Guado al Tasso delle cantine del Marchese Antinori, di un bel color rubino, decisamente tannico, di grande stoffa, morbido ed elegante, con sentori di ciliegie ed amarene. Escludemmo i dessert e concludemmo con un caffè alla Talleyrand-Périgord.

Come è facile immaginare, la bella serata fu riempita da una ricca conversazione durante la quale ritrovammo la sintonia su molti suggestivi argomenti, forse amplificati dall’ottima cucina. Poiché gli amici di vecchia data spesso rievocano episodi accaduti nel tempo, tempo che passa inesorabilmente, una parte del discorso cadde sulla vecchiaia. Una domanda ci assillava. Quando possiamo parlare di anzianità o se volete di vecchiaia? Ebbene vi do una buona notizia, alla faccia dei moderni soloni. Un recente studio dei soliti giapponesi (che peraltro detengono il primato della longevità) riguardante le recenti terapie cardiologiche per le persone in età, ha definito con tecniche di indagine ineccepibili, che si può parlare di anziani dopo i 75 anni e di grandi anziani dopo gli 85. Poi il nostro discorso continuò sul ruolo dell’anziano in questa società di matti. Non era ancora il tempo del Covid.

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Ivanoe Pellerin

Oggi la vecchiaia viene considerata come un assoluto disvalore. I genitori e i nonni di coloro che sono oggi in età matura accettavano di essere vecchi e considerati tali. A volte addirittura ci tenevano. Anche chi non ne ha un ricordo personale può ricavare il loro modo di porsi e di portarsi nei confronti delle età dalle fotografie: sono vestiti da vecchi, hanno posture da vecchi e la composta severità dei vecchi anche se hanno intorno ai sessantacinque – settant’anni o più. Oggi invece la vecchiaia è diventata insieme alla morte il tabù dell’uomo contemporaneo. Abbiamo creato un’intera classe di spostati, di infelici che prima non esisteva e che nelle società sviluppate continua ad ingrossare le proprie fila a causa dell’invecchiamento prolungato e protetto. In Italia gli ultraottantenni sono oltre il 5% (dati ISTAT). Siamo una società di vecchi che coltiva un paradossale e grottesco culto del giovanilismo andando così ad accrescere il senso di frustrazione e di inadeguatezza degli anziani. La cosa è paradossale ma non priva di ragioni. Il vecchio è un consumatore debole per la società tranne che per le spese mediche, che sono però un costo per la collettività.

Quindi a ben guardare questa categoria, data la sua enorme possibilità di espansione, è diventata un vasto e appetibile mercato. Occorre però stimolare il vecchietto facendogli credere di essere ciò che non è più e desiderare cose che gli sono ormai diventate indifferenti o superflue. Nelle società tradizionali, premoderne, preindustriali, prevalentemente agricole e caratterizzate dalla trasmissione orale è il vecchio che detiene il sapere, che conosce le cose indispensabili per la vita e la sopravvivenza o anche più semplicemente per il buon andamento del quotidiano: a lui ci si rivolge, a lui spetta l’ultima parola. È rispettato, ha importanza, ha autorità, ha prestigio, ha un posto, una funzione, un ruolo di tutto rilievo. La sua vita conserva un grande senso, quello di trasmettere la propria esperienza ai più giovani.

Nella società attuale avviene esattamente l’opposto. Le rapidissime trasformazioni tecnologiche fanno del vecchio un analfabeta, uno spaesato la cui esperienza non serve più a nessuno. Per cui lo storico Carlo Maria Cipolla può scrivere: “Una società industriale è caratterizzata dal continuo e rapido progresso tecnologico. In tale società gli impianti diventano rapidamente obsoleti e gli uomini non sfuggono alla regola. L’agricoltore poteva vivere l’intera esistenza beneficiando di poche nozioni apprese nell’adolescenza. L’uomo industriale è sottoposto a un continuo sforzo di aggiornamento e tuttavia viene inesorabilmente superato. Un vecchio nella società agricola è il saggio, in quella industriale un relitto”.

Attenzione, però! Il declino legato all’età non è un pegno obbligatorio. La vulnerabilità può essere allontanata nel tempo e la ricetta per riuscirvi è tutto sommato semplice: buone relazioni sociali per stimolare il cervello, una dieta adeguata non troppo abbondante né carente di nutrimenti per mantenere il peso forma, un’attività fisica regolare adeguata alle proprie condizioni di salute. La buona notizia è che il momento nel quale si diventa fragili non è scritto nei geni e può essere allontanato nel tempo. Poi è arrivato il Covid-19 che ha iscritto i “vecchi” nella legenda dei fragili e dei bisognosi, una specie che deve essere protetta. Intendiamoci non per etica ma solo per andare a prendere i bambini a scuola.

Cari amici vicini e lontani, l’ottimo tempo di quella serata fu riempito da un confronto affettuoso ed intenso come si conviene a due amici che hanno tanto da dirsi e da confrontare. Vi devo confessare che non resistemmo alla tentazione di concederci un Caolila 18 anni, un whisky davvero grande dei lidi scozzesi settentrionali, torboso e secco con un corpo rotondo ed un finale vellutato. Le grandi occasioni devono essere degnamente celebrate. Ci lasciammo come capita a molti, con l’impegno a ritrovarci più spesso, ben sapendo che gli incontri della vita, nonostante le buone intenzioni, possono diradarsi o intensificarsi per i più diversi e straordinari motivi. Al giorno d’oggi, ve ne sono ahimè ancora di più.

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