VISTO&RIVISTO Se i morti viventi in realtà siamo noi

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di Andrea Minchella

VISTO

I MORTI NON MUOIONO, di Jim Jarmusch (The Dead Don’t Die, Stati Uniti 2019, 103 min.).

Un film sul cinema. Un film nel film. Jim Jarmusch realizza questo suo quindicesimo film citandosi e citando diversi maestri che hanno fatto la storia della settima arte.

Prendendo spunto da una piccola storia ambientata in una piccola cittadina americana, Centreville, l’eccentrico visionario artista ci regala un autentico manuale su come girare un film. Questo “I morti non muoiono”, infatti, sembra una grammatica base necessaria per chi volesse intraprendere il mestiere del regista. Gli elementi di un certo cinema, infatti, ci sono tutti: i buoni, più o meno, i cattivi, il trucco, gli effetti speciali, una piccola città della provincia americana, lo sceriffo, una sceneggiatura scarna, monocorde e lineare.

Il racconto, lento ed angosciante, si sviluppa attorno ad una comunità che sembra già vivere in una collettiva stanchezza paranoide, ben prima dell’arrivo degli zombi, quelli veri. A causa di un decentramento dell’asse terrestre, infatti, iniziano a susseguirsi strani eventi: animali domestici che spariscono, giornate che, al di là dell’ora legale, diventano inspiegabilmente più luminose, apparecchi elettronici che improvvisamente smettono di funzionare. E, dulcis in fundo, come in ogni film horror-splatter che si rispetti, i morti riemergono dalle loro tombe e, acciaccati ma molto simili per prontezza mentale ai vivi, quelli veri, incominciano ad infestare la piccola città, attaccando e cannibalizzando l’ignara e distratta popolazione di Centreville.

Il regista, appunto, decide di rendere omaggio ad alcuni dei grandi maestri del cinema: tracce di Quentin Tarantino, dei fratelli Cohen, del capostipite degli “zombies-movies” Romero e del padre dell’horror Alfred Hitchcock si susseguono come un mantra che, miscelandosi con il ritmo del racconto, trasportano lo spettatore in una dimensione quasi onirica in cui emerge, grazie alla capacità di Jarmusch, una scrupolosa e profonda riflessione sulla società contemporanea.

È fortemente evocativa la figura dell’eremita, quasi barbone, che vive nella foresta: un Tom Waits, spesso presente nelle opere di Jarmusch, che osserva da un punto di vista privilegiato l’orda impazzita dei morti viventi. Il vecchio senza dimora assiste quasi divertito alla biblica e nefasta fine del mondo che sta per abbattersi sul mondo: solo la natura ed il rispetto per l’ambiente forniscono una sbiadita ma unica alternativa ad una fine sicura ed annunciata, come lo stesso poliziotto Ronald, interpretato dal sempre più centrato Adam Driver, continua a ripetere durante tutta la vicenda, alludendo addirittura alla sceneggiatura dello stesso film. Insieme al giovane ed essenziale Driver, troviamo un granitico e cinico Bill Murray, che riesce ad affrescare nuovamente un carattere unico e iconografico.

Un interessante, dunque, viaggio all’interno della società contemporanea drogata dalla bulimia di oggetti, foto, desideri terreni, priva di memoria storica e con una scarsa sensibilità nei confronti del pianeta che ci ospita. Un esperimento splatter che aggiunge un importante tassello nell’originale e variegata filmografia di Jarmusch.

 

RIVISTO

IO SONO LEGGENDA, di Francis Lawrence (I Am legend, 2007, 100/104min.).

Il peggior incubo dell’uomo: restare solo in un mondo vuoto. Per sempre. L’apocalittico romanzo di Richard Matheson diventa, per la terza volta, un film ben costruito che catapulta lo spettatore in un asfissiante e terrificante mondo in cui l’umanità si trasforma, per colpa di un virus, in un’orda di vampiri che vivono in bande, uccidendosi barbaramente tra loro. Il protagonista, interpretato da un Will Smith che qui ci regala, forse, la sua migliore interpretazione, vive in questa realtà allucinata in compagnia del suo pastore tedesco. Credendo di essere l’unico uomo restato sulla terra, organizza la sua vita barricato all’interno del suo laboratorio. Solo l’incontro con una donna ed un bambino gli darà di nuovo una spinta per lottare e sperare che da qualche parte il virus non sia riuscito ad arrivare.

Lawrence riesce magistralmente a trasferire nella pellicola la tensione che Matheson era riuscito a racchiudere nel suo libro. L’ossessione e la paura della solitudine vengono inscenate con una capacità puntuale e mitografica. Un film che non sembra dimostrare gli anni che ha, grazie anche all’accuratezza e alla complessa geometria della sceneggiatura.

 

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