VISTO&RIVISTO Una piccola grande delusione

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di Andrea Minchella

VISTO

THE WHALE, di Darren Aronofsky (Stati Uniti 2022, 117 min.).

Tanto clamore. Un’attesa lunga quasi un anno da quando hanno cominciato a girare le foto di un Brendan Fraser irriconoscibile (anche se il “bello” de “La Mummia” si era già mostrato nei suoi ultimi lavori molto appesantito e particolarmente segnato dalla vita). Non che non fossimo abituati a vedere attori irriconoscibili da una magrezza sconcertante (Christian Bale nel “L’Uomo Senza Sonno” o Mattew McConaughey in “Dallas Buyers Club”) o da un’obesità straripante (sempre Bale in “Vice” o Russell Crowe in “The Loudest Voice”), ma certamente la prova che un attore deve superare in ruoli in cui il corpo arriva prima dell’anima è sempre complessa e molto stressante per chi recita. In questo caso, ritengo, la spropositata obesità del protagonista diventa l’unica certezza del film. Perché Darren Aronofsky, che torna al cinema dopo l’eccessivo “Madre”, sembra non essere riuscito a spingersi oltre il convenzionale o il politicamente corretto. Il regista ci ha abituati, quasi sempre, ad una narrazione viscerale e snervante quasi da provocare ribrezzo o voltastomaco. Il dolore e le sofferenze dei suoi personaggi diventavano il nostro dolore e le nostre sofferenze. Guardare un’opera di Aronofsky si trasformava inevitabilmente in una sorta di esperienza spirituale in cui un pezzo della tua anima veniva immancabilmente compromesso.

Ma “The Whale” non ha lo stesso effetto. Peccato. La recitazione di Fraser, al di là delle candidature e dei premi, non sembra affatto all’altezza del progetto. Le smorfie che si riescono a percepire sotto quintali di trucco non rendono giustizia alla drammaticità di ciò che il regista aveva, probabilmente, desiderio di realizzare. Sembra tutto posticcio come il trucco di Fraser. I dialoghi, la casa, i pianti, le grida. Anche il cibo, che si vede poco, diventa un feticcio in un racconto troppo convenzionale. È fin troppo chiaro e didascalico il confronto spietato tra il corpo martoriato e l’anima tormentata.

Charlie è un professore di inglese che vive in una casa sempre buia, con le tapparelle quasi completamente chiuse, seduto su un divano a causa della sua obesità invalidante. A fatica si muove con un deambulatore. Solo una ragazza, Liz, si prende cura dello straripante Charlie, che passa le giornate tra mangiate compulsive di cibo spazzatura e lezioni di scrittura che tiene “on line” grazie ad un computer portatile. Charlie, scopriamo, ha una figlia adolescente che ha abbandonato quando era piccola. Charlie è stato sposato ed era più magro prima che qualcosa accadesse nella sua vita: un amore difficile con un suo studente quando Charlie insegnava in università. A completare il piccolo gruppo di personaggi c’è Thomas, un ragazzo che capita per caso nella casa di Charlie pe cercare di “convertirlo” ad una delle tante religioni “porta a porta”.

Aronofsky perde di vista il quadro generale ma riesce comunque a tratteggiare una storia carica di ferite e di eccessi. La luce artificiale che illumina in maniera fredda la piccola e angusta sala in cui la vicenda prevalentemente si svolge squarcia con una violenza inaudita le anime fragili che si muovono attorno a Charlie. L’ombra che pervade la maggior parte delle sequenze diventa come la balena bianca di Moby Dick: la parte oscura della nostra anima, il lato nascosto delle nostre pulsioni, il segreto inconfessabile che prima o poi riemerge per sovvertire violentemente il mondo in cui viviamo. Ma questa attenzione stilistica del bravo regista non basta. Sono troppi i momenti in cui la narrazione sembra vittima di sé stessa. La vicenda si sgretola a favore di un incalzare retorico tra la visione buonista di Charlie e la drammaticità delle conseguenze che riemergono delle scelte sbagliate di Charlie. Come se l’amore potesse davvero creare un potente antidoto alla devastazione fisica e mentale che siamo in grado di procurarci da soli. No, non è così. Dal regista americano, forse, mi sarei aspettato un’altra lettura del dramma di una dipendenza patologica strettamente legata al grado di sofferenza della vita.

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RIVISTO

THE WRESTLER, di Darren Aronofsky (Stati Uniti 2008, 105 min.).

Potente come un pugno nello stomaco. Il rapporto tra un padre apparentemente assente e folle e una figlia incredibilmente dolce e forte in un racconto asciutto ma iconografico dove ogni inquadratura, ogni battuta, ogni centimetro di luce e ogni rumore diventano l’essenza unica e magica di un film gigantesco carico di speranza e di infinite possibilità di rinascita.

Lontano dai luoghi comuni e dalla banalità della sofferenza, “The Wrestler” è capace di colpirci al cuore lasciandoci una traccia indelebile della potenza straordinaria di un rapporto che vive nonostante tutto. Epico.

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