Lega varesina alla ricerca dell’identità perduta

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“La Lega è una sola”. Umberto Bossi lo ripete spesso, forse intendendo che, se ce n’è una soltanto, quella è la sua. Ciò che è venuto dopo, con Matteo Salvini e compagnia di giro, lo riguarda, ma fino a un certo punto. Tanto che sarebbe nata da lui l’idea di rimettere in asse il vecchio partito movimentista, che aveva bene in mente la questione settentrionale, sintetizzando l’obiettivo con lo slogan “Prima il Nord”. Così che la “nuova” Lega, che alle ultime elezioni ha patito la batosta, debba oggi fare i conti con un Comitato interno che, tradotto dal politichese, significa linea in dissenso con quella del segretario, e tentativo di conquistare la leadership nelle sezioni.

Lo ha già fatto un paio di settimane fa a Bergamo, prova e rifarlo domenica 4 dicembre al congresso provinciale di Varese, convocato non a caso in un teatro di Busto Arsizio. Non una sezione qualunque, ma la sezione da cui è partito tutto, una quarantina di anni fa, quando Bossi era Bossi e i Lumbard si proponevano addirittura la secessione. Storia passata, ma mica tanto. Sotto sotto, certe pulsioni covano ancora. Il politicamente corretto dei tempi correnti impedisce ai leghisti di dirlo con chiarezza, ma la svolta nazionale di Salvini non entusiasma tutti i militanti. Specialmente all’indomani dei risultati del 25 settembre. Specialmente a Varese e dintorni.

Al punto che i due candidati alla segreteria, Andrea Cassani e Giuseppe Longhin, si dividono a metà i consensi dei seicento e passa aventi diritto al voto al congresso. In altri termini, un derby dall’esito imperscrutabile tra salviniani e bossiani. Cassani e Longhin, sulla spinta unitaria del commissario uscente Stefano Gualandris, smentiscono il braccio di ferro. Parlano di democrazia interna, ribadiscono che è così che si porta avanti un partito. Hanno ragione, se non fosse che la Lega è sempre stata un partito leninista (citazione da Bobo Maroni), dentro il quale il dissenso non aveva spazio. Storiche le espulsioni negli anni d’oro di chi osava contraddire il Capo. Di pochi mesi fa le “epurazioni soft” di militanti, ex deputati e maggiorenti, candidati alla panchina piuttosto che al Parlamento perché, si diceva e si dice, di matrice giorgettiana. Giancarlo Giorgetti da Cazzago Brabbia, l’altro leader del movimento, dato in perenne contrasto con Matteo Salvini, considerato però un intoccabile per l’allure che lo contraddistingue, per le amicizie che contano, per essere l’interlocutore privilegiato dei potenti, banchieri, Quirinale, imprenditori. Infatti, è il ministro più importante del governo Meloni. Infatti.

E’ così che la Lega varesina adesso si conta. Democraticamente. Ma soltanto per non essere riuscita a trovare un candidato unico, che facesse sintesi, come si dice, tra le diverse istanze. Il “partito leninista” che imbocca giocoforza lo via democratica. Passando però per il castello di Giovenzano, dove il Comitato del Nord anticipa di un giorno (sabato 3) il congresso varesino/bustocco, mette punti fermi, fa sentire la propria voce, si confronta, lancia il proprio manifesto. Sarebbe riduttivo pensare che il Comitato sia il rifugio degli scontenti e dei trombati leghisti.  C’è dell’altro oltre l’apparenza e le malignità. Appunto, c’è Umberto Bossi e la sua idea di nazione, che comincia e finisce con la Padania. Un Bossi fiaccato dalla malattia, costretto ai margini dell’azione politica, ma pur sempre in sella. Simbolo, icona, mito di un partito che anche da Varese è di nuovo alla ricerca dell’identità perduta. Perché un’identità, giusta o sbagliata che fosse, l’ha avuta la Lega, per poi disperderla nella politica politicante della nemica giurata degli albori: Roma ladrona.

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